venerdì 11 ottobre 2013

Mette el carro al sole

Espressione singolare e tipicamente marchigiana, nonché di non immediata comprensione, "mette el carro al sole" indica nella tradizione campagnola (ma tale formula viene ancora usata dai discendenti inurbati di quei contadini) il momento in cui ci si libera finalmente da ogni preoccupazione e si incomincia a godere di una certa prosperità economica e finanziaria e, in senso più ampio, di una tranquillità esistenziale.
Chi mette il carro al sole ha un futuro assicurato; non ha che da riposarsi e godersi la vita che gli resta, e guardare l'orizzonte sconfinato con un sorriso altrettanto privo di limiti. Colui che - poniamo - sposa la figlia di un industriale, ed entra così in una casa du che i guadri' è fitti, mette il carro al sole; il liceale che riceve una serie di voti alti, quando manca ormai poco alla fine dell'anno scolastico e nulla può più macchiare la sua media, ha messo il carro al sole; lo studioso che riceve inviti a conferenze prestigiose all'estero - el paga per gi' o' a discorre -, nonché proposte di cattedre e borse di studio da mezzo mondo, ha messo il carro al sole. "Mettere il carro al sole", dunque, sottintende una raggiunta condizione di serenità e fiducia, e la sostanziale irrevocabilità o comunque estrema stabilità di tale stato di cose.
Ma da dove viene - è ciò che dobbiamo chiederci noi linguisti o quel che è - questa espressione? Quale il suo senso letterale, etimologico, storico (quello figurato l'abbiamo appena spiegato)? La prima ipotesi è di carattere storico ed è stata presentata già nei secoli passati da numerosi studiosi; si può dire anzi che sia la spiegazione usualmente fornita. Prendiamo ad esempio l'abate Birrozzi (Eschimo Fugardo Birrozzi, vescovo di Fossombrone a metà del XVII secolo e primo diffusore del gioco dei racchettoni nell'entroterra marchigiano); questi scrisse, nella sua Antiquitas marchiana ex ore ipsa marchianorum, sive nos nobis loquimur et nos non intellegimus (Amsterdam 1662): "Non havvi dubbio, a me sembra, che quando giunsero alla nostra Italia e ancora meglio alle nostre Marche que' barbari che poi si sparsero per monti e piani, recando seco donne e figlioli et bestiame grande e picciolo che era loro unica vettovaglia et arte, giacché nulla sapevano di coltivazioni in quel tempo et nulla cavavano dalla terra ne' loro lande frigide e poco atte al grano, uva et altre piante da manducazione, allora parve loro sì gran cosa fermare alfine que' carri, che erano loro consuetudine e loro case, al sole delle nostre contrade. E sì pensarono, io nol so, ché non vi fui, ma parmi sicuro, che tutte loro premure e inquietudini terminavansi con l'haver aquistato terreni solatii et aprichi e che però mai più faticherebbero a procurarsi il vivere... Sbagliavano, come poi videro essi stessi, ma fu il loro sbaglio comprensibile; e restò nel dire comune de' Marchiani oggipure quel porre il carro al sole, per affermare che mai più si temerebbero le asprezze della vita e che si è in tutta parte soddisfatti, come sentivansi soddisfatti Galli o Langobardi che primi posero piede in quello che pristinamente chiamavasi Piceno (...)".
Nei decenni e secoli successivi questa interpretazione fu confermata e arricchita da molti altri linguisti e storiografi ecclesiastici e laici; si ricorda ad esempio il garibaldino Pietrino Fanò, orbato di una gamba, di un braccio e di un occhio a Calatafimi dalla furia borbonica mentre era incastrato in una ringhiera, e poi senatore del regno, il quale mostrò che non a caso il detto utilizza il termine "carro": sorta di italianismo nobile, per essere chiari, al posto del più normale e ruspante biroccio. Ciò si dovrebbe spiegare, a suo dire, con la circostanza che appunto ci si riferisce nel detto non al carretto da lavoro di tutti i giorni, ma ai grandi carri coperti di pelli su cui si muovevano i popoli germanici (vedi P. FANÒ, La patria spiegata ai fanciulli e agli infelici, e boja chi non la capisce, Civitella del Tronto 1861). Questa teoria, ad ogni modo, è quella a tutt'oggi prevalente e quella cui si affidano di solito gli artigiani del pavè, i cartai fabrianesi, gli ultras del Fano e la popolazione marchigiana in generale.
Più recentemente, tuttavia, sono state avanzate altre proposte. Sulla scorta delle notevoli scoperte archeologiche effettuate a Cartoceto di Pergola, a Castelleone di Suasa e in altri luoghi del centro-nord della regione, certi storici hanno voluto collegare la prosperità della zona a una prima forma di industria del legno e del mobile, che poi si sarebbe sviluppata vigorosamente nell'età contemporanea. Più precisamente, l'archeologo svizzero Torsten Barnetta ritiene che l'economia di intere cittadine si reggesse sulle commesse, imperiali e di privati, per la fornitura di manufatti in legno di ogni genere. La capacità dei maestri marangoni sarebbe stata tale da ingenerare la credenza (carpenteria-credenza, sì. Si scusi il bisticcio) per cui quei falegnami avrebbero costruito perfino il carro su cui il Sole, come noto, solcava il cielo per i pagani. E per quel prestigioso incarico sarebbero stati ripagati con tale generosità che si disse pure che "mettere il carro al sole" avrebbe permesso loro di non lavorare mai più. Nei secoli, poi, si perse l'origine precisa del detto, che tuttavia rimase come sinonimo di raggiungimento di una fortuna sicura (tale tesi è consultabile in T. BARNETTA, Lebensbaum in römischen Marken, in AA. VV., Neue, zahlreiche Gründe, um Italien einzufallen, Zürich-Lübeck-Carpegna 2008).
Infine esiste una terza ipotesi, assai minoritaria ma comunque significativa, basata su premesse simili a quelle appena presentate ma totalmente rovesciata di senso. Essa fu partorita alla fine dell'Ottocento negli ambienti dell'anarcosocialismo, notoriamente forte nel senigalliese; fu Ermete Mancinelli, fabbro, poeta e storico popolare, a scrivere sulle colonne del "Lampo miseno", periodico che egli curava pressoché interamente, che non si trattava e non si sarebbe mai potuto trattare di mettere carri al sole, giacché a questo i potenti avevano aggiogato già all'inizio della storia umana una pesante coda di arbitrio e di schiavitù (si intendeva, cioè, che la giornata scandiva per i proletari il tempo della fatica, di cui peraltro non godevano generalmente i frutti). Non c'era dunque neanche da pensare di rimettersi a fare carri e di attaccarli a chissà che, in attesa di ricompense che al massimo sarebbero state servili ed umilianti; bensì - così si leggeva nel Prometeo, rubrichetta di cultura e storia sempre vergata da Mancinelli - meglio sarebbe stato manomettere quel carro (leggasi le annate 1898-1899 del "Lampo miseno", edite a Senigallia e ristampate fra Ponte Rio e Maastricht nel 1974). Anzi, di sicuro, quella era - stando a Mancinelli - l'espressione originale coniata dagli schiavi dei latifondisti romani: il sole avrebbe rischiarato un mondo giusto e bello soltanto quando non avesse trascinato più con sé e affibbiato all'umanità dolente catene tanto gravose... "Manomette el carro al sole" divenne perciò una parola d'ordine diffusa e amata; che poi l'etimologia fosse credibile o fantastica, questo conta poco: conta che fu a questo grido che si registrarono diversi assalti alle fabbriche e diversi episodi di luddismo in tutte le Marche, finché i regi carabinieri non intervennero con durezza (cfr. S. POSSANZINI, A discore nun è fadiga, Hamburg-Recanati 1992, per una storia ragionata del primo sindacalismo anarchico marchigiano).
Non si hanno dunque certezze su questo curioso modo di dire; si può affermare soltanto, con buona sicurezza, che il sole è una bella cosa e ai marchigiani piace. E più ancora piace a questi stessi marchigiani, proprio perché tradizionalmente noti per il loro zelo lavorativo, che il lavoro un giorno finisca per sempre e non se parli più.

sabato 16 febbraio 2013

Ndu se 'nginocchia i somari

In ogni cultura e ogni mitologia esistono terre e luoghi che corrispondono in realtà a stati d'animo, che siano le aspirazioni, i desideri o le paure dell'uomo. Può essere il caso del Paradiso terrestre per gli ebrei o dell'Ade o dei Campi Elisi della Grecia classica (queste note siano intese come vagamente culturali e assolutamente non incentrate sulla questione religiosa). Altri miti, più moderni e prosaici, corrispondono a necessità più carnali e avide: si veda il mito dell'Eldorado.
Ma il luogo metafisico che andiamo a presentare somiglia semmai a un luogo maledetto, sottoposto a un incantesimo malvagio o comunque soggiacente a una prostrazione imbattibile (simile, in un certo modo, al Wasteland della tradizione celtica): parliamo del posto ndu se nginocchia (o 'ngenocchia) i somari. Il tratto maggiormente inquietante di questa condizione, confusa fra tempo, spazio e metafisica, è il fatto che spesso sia citata come inevitabile; essa è posta, grossomodo inderogabilmente, al termine di un percorso umano, qualunque esso sia. "Oh, da sé ch'ho lassado gi' a gi' a la scola" dice ad esempio un giovane, "Tutte le sere me la pio grossa*; 'gni sera più grossa de quel'altra, robba che no je la fo a da' 'l resto... Pro 'nco' reggio!". Al che ribatterà un sodale più maturo: "Pr'ade' reggi scì, que ce ole, a l'anni tua... Prò vedrai che ce rrii pure te, ndu se ngenocchia i somari".
Paradossalmente, a dimostrazione dell'antichità contadina della forma mentis marchigiana, un operaio o un artigiano potrà mormorare, la sera all'osteria: "Tocca che tiro via** a gi' in pensio', in vaganza o non el so, ché chi è 'n attimo a rria' ndu se inginocchia i somari. Sto a trenta e du figure***...". In un certo senso, se si passa l'ardito parallelismo, la concezione che sta dietro queste formule sembra più antica delle dottrina cristiana delle opere e di ogni ricompensa; non solo, in un certo senso la sua inevitabilità ricorda la condanna della Gehenna, che era comune a probi e peccatori, prima che l'Ebraismo incontrasse la filosofia persiana e la sua concezione del bene e del male. Non esiste invece giustizia, non c'è premio né punizione, là dove vanno ad inginocchiarsi i somari.
La manifesta antichità del modo di pensare e giudicare le cose che pare celarsi dietro questa formula ha ovviamente stimolato la curiosità di linguisti, etnografi e storici di varie generazioni. I più anziani agricoltori della zona di Pongelli di Ostra Vetere (AN) ricordano ancora, a questo proposito, l'arrivo in massa nei poderi dei propri genitori e nonni, nel periodo fra le due guerre, di un gran numero di studiosi tedeschi. Costoro, adepti della cosiddetta Siedlungsarchäologie, dopo una lunga e infruttuosa ricerca in Mesopotamia si erano trasferiti nelle Marche per verificare una teoria rivoluzionaria: quella, lanciata negli ultimi anni dall'Ottocento dall'erudito inglese Sir Roger Pudding, secondo cui la scomparsa dei sumeri dal palcoscenico della storia si doveva in realtà a una loro migrazione di massa verso Occidente (cfr. E. MATOMA, L'età di Pudding o la sumerologia ai tempi del vapore, in AA. VV., Teorie strampalate e abusi delle credibilità popolare nella storiografia moderna, ed. it., Cogoleto 1978).
Il Pudding, lanciata la sua teoria, si era tuttavia dato alla caccia grossa in Africa Orientale, e non aveva mai chiarito il luogo di arrivo della mitica migrazione; furono dunque i suoi eredi a cercare negli archivi e nei sottoscala in cerca delle tracce dei sumeri; senza tuttavia grosse fortune. Solo un giorno d'estate del 1931 il dottorando in Storia del Vicino Oriente Heinz Himmelbogen, in vacanza a Senigallia, ascoltò per caso dalla voce di un esercente del mercato ortofrutticolo la frasetta sul dove si inginocchiano i somari, e la ricollegò immediatamente a una formula da poco scoperta nelle ziggurat di Bilbat, tra le più occidentali città sumeriche; qui ci si riferisce all'attuale deserto siriano, che serra e serrava la fertile piana mesopotamica, come al luogo cocente e impraticabile in cui si inginocchiano gli onagri (▶▶▸ ►▻▻◃◃ ◀ ◀◀▲▶◄◄, minal-ku-gak-en-bi-te-kato). Himmelbogen, nonostante il pressante invito di seguire a Porto Potenza Picena una giovane donna appena conosciuta in spiaggia, si recò subito alle poste a telegrafare la scoperta, cosicché nel giro di pochi giorni fu organizzata una missione etnografica incaricata di individuare se davvero fosse da ricercare nelle Marche centrali la perduta civiltà sumera. Mesi e anni passarono senza risultati; finché qualcuno ammise a mezza bocca che l'unico motivo per cui l'Università di Heidelberg aveva acconsentito a spostare i propri archeologi dall'Iraq alla Valmisa era il fatto che si erano rotti i coglioni della sabbia e dei mosconi. Si legga a questo proposito il diario del capo di quella spedizione (G. BUCHWALD, Mindestens waren wir unter Christen, Uerdingen 1956; tradotto poi in parte come Alme' staceamo nfra i cristia', Genga 1965).
Se questa teoria è perciò squalificata, regge tuttora la seconda, anch'essa di impianto storico. Essa fu presentata da una giovane ricercatrice della Cattolica di Milano, Barbara Barbi, durante un convegno tenutosi nella provincia anconetana (vedi B. BARBI, Barbe barbariche e bardature barocche: le Marche profonde allo specchio, in Blaterare al bar. Atti del convegno internazionale, Barbara (AN), 10-15 gennaio 1987, Bari-Bar 1989). A parere della Barbi, l'origine del detto va sì ricercata nelle grandi migrazioni dei popoli, ma non in quella - fantomatica - dei Sumeri, bensì in quelle storicamente accertate di popoli di origine celtica e germanica che popolarono in vari momenti le valli marchigiane. Questi, verosimilmente, risalirono con le proprie donne e le altre bestie il corso dei torrenti, in cerca di luoghi fertili e difendibili; fino a che, presso erte scoscese e sassose, l'inginocchiarsi degli asini aveva segnalato infine al Brenno di turno che non c'era modo di procedere oltre.
Pur non escludendo la possibilità celtica e pre-romana, la Barbi tende tuttavia ad attribuire ai Longobardi o ai Franchi, nell'alto Medioevo, lo sviluppo della formula; a suo modo di vedere ove si fermarono gli asini - in luoghi dunque difficili persino per animali tanto tenaci - i popoli germanici avrebbero costruito le fortezze che ancora oggi punteggiano le più aspre vallate della regione, valutando giustamente che aggressori umani avrebbero avuto enormi difficoltà nel riuscire a transitare dove manco i somari. Certi hanno fatto tuttavia notare che il posto dove si inginocchiano i somari, nella mentalità marchigiana, è un luogo totalmente negativo, che mal si concilierebbe con l'ipotesi di una relativa sicurezza donata dall'incastellamento barbarico. Più facile, secondo questi ultimi, che l'origine del detto sia molto antecedente la nascita di Cristo, e si riferisca a quelle primavere sacre e alle migrazioni più o meno forzate cui si sottoponevano parti delle popolazioni celtiche e picene allora stanziate nella regione, lasciando le terre ormai sovrappopolate e troppo sfruttate per scomparire oltre i valichi e le giocaie montane, là dove, appunto, si inginocchiano i somari (diciamo, per es., al Passo di Scheggia). Le madri e i parenti avrebbero ripensato per sempre con tristezza ai figli e congiunti perduti o lontani, fino a far entrare nel lessico comune quell'accento di singolare e poetica mestizia. Tale, almeno, è l'opinione di Piero Renzaglia, ex portiere della Recanatese e storico del folklore locale; le sue opinioni sono raccolte in Teorie influenzate dal paccatello e cresce davanti al fuoco, Paris-Sassoferrato 1993.
Esiste infine una terza ipotesi, diversa e più antica delle altre; essa è di natura mistico-religiosa, e argomenta che i somari del motto siano da identificare non nelle bestie grigie e riottose che tutti conosciamo, bensì con i peccatori e coloro che contravvengono al dettato divino. Fu sviluppata nel Seicento, nel primo fiorire dell'erudizione locale, dal vescovo di Urbisaglia (allora come oggi un disoccupato di lusso, essendo la diocesi soltanto onoraria), Settimio Sargolini. Costui mise a frutto il proprio tempo libero inventando un violino meccanico, solo leggermente distorto, che non ebbe grosso successo, e soprattutto dando alle stampe il Compendium magnum et verum omnium dictorum quae in Terra Marchianorum occurrunt ex ore agricolarum, piscatorum, aurigarum carruum atque aliorum incultorum, et christiana explanatio eorum (Casteldurante 1614). Si legge in quelle ispirate pagine: "Vedesi ordunque ogn'ora che dei birboni vanno per la strada, et l'hostaria, et ovunque sino in chiesa e nelli pubblici offizi, menando vanto della loro trista condotta, et pigliandosi le maggiori libertà, quali l'insolentire la religione, il far mercato de' cose sacre o il dileggio portato alli simboli di N. S. Christo con la parola et con le azioni, o i delitti i più odiosi a danno delli honesti. Et non v'è davvero numero bastevole di birri o leggi o pronunciamenti della giustizia capaci a porre un solco in terra dinanzi a tanta arroganza, sì che innocentemente si domanda a Dio et alli suoi vicari nel mondo come Egli tolleri cotali sfide alla Sua autorità.
Et invero una et una sola è la risposta possibile et certa che Iddio padre dona alli figli propri, et essa dice che ben prima di ogni loro pensiero i prepotenti rivolgeranno al terreno il capo pieno di malpensieri et opere sataniche; questo essendo il recondito et veramente christiano significato del detto che ripetono li nostri villici sin dalli tempi antichi, iusta al quale ogn'homo giungerà a tempo debito ove s'ingenocchiano i somari. Dinanzi a quale luce et quale potenza non è manco da dire, tanto la voce è chiara, naturale et colma de santo sentire; però che diciamo a chi, colmo di arroganza, mostra e si gloria delli propri peccati, che pensino piuttosto a pentirsi, prima che giunga quel tempo...". Pare anzi che Sargolini volle organizzare in diversi luoghi della regione, a scopo pedagogico, palî e corse di asini; è dubbio tuttavia se il popolo, che accorreva in massa, cogliesse il senso metaforico della manifestazione; che lasciava comunque in eredità al servizio di nettezza urbana dei vari comuni, grossi quantitativi di merda fumante da smaltire alla svelta. Il che ricordava in un certo senso agli spazzini, mézzi di fatica, che prima o poi giungeremo tutti dove si inginocchiano i somari.

* piassela grossa: far baldoria.
** tira' via: sbrigarsi.
*** trenta e du figure: quasi alla fine, al limite estremo (della sopportazione).

martedì 11 dicembre 2012

Zuppo de terra

C'è un tipo di persona davanti alla quale l'osservatore educato, cittadino, magari cosmopolita non può che ritirarsi inorridito, per quanto ben disposto voglia essere quest'ultimo: tale persona rozza, triviale, penetrata e impregnata in ogni fibra del proprio essere di ignoranza atavica e villania irrecuperabile, è per l'appunto lo "zuppo de terra".
Tale zuppaggine connatura e definisce il malcapitato, che d'altronde non avverte la propria sfortuna, in ogni senso: essa lo rende disattento - per dir poco! - ai dettami del vivere civile, e in più incapace di rapportarsi a tutte le invenzioni e le trovate che sono il frutto dell'intelligenza umana, le quali rendono più facile e degna di essere vissuta la nostra esistenza su questa terra. Dirà per esempio un tale, sbuffando e bestemmiando piano, di fronte a un qualche attrezzo tecnologico che pare resistergli e il cui funzionamento gli sfugge: "Que diaolo dovrìa rappresenta' sto ciaffo? E miga fa na sega, tocca portallo a commeda'*!". "Ma que voi commeda', bada a camina'...", ribatterà un amico o un conoscente, con tono appena sussiegoso, apprestandosi a risolvere il facilissimo intoppo, "Passeme sto fregno, te fo vede io, o zuppo de terra. To', ce volea 'n bel po'...".
Ma lo zuppo di terra, per sua natura, non osserva e non apprende; egli si limita a recitare nel teatro della vita la propria parte meschina.
A proposito di teatro, può capitare anche che un amante dell'alta cultura esca in tarda serata da un'opera o da un concerto, e incontri sulla via alcuni giovani - più o meno avvinazzati - che blaterano qualcosa a voce elevata o, peggio ancora, giocano con il proprio cellulare e impongono all'aere circostante l'ascolto di una qualche melodia della dance marocchina. "Ma te vara sti zuppi de terra! E i fa sgappa' fora da 'n teadro... Sarìa da taccalli su** tutti!". "Scì, ma 'n te ne pia'...", dirà la moglie. "E miga me ce stizzo***! Io fo pel be' de lora...". Così dicendo, cercando di soffocare il nervoso e di ripensare a Bach, l'uomo si dirigerà alfine verso casa, nel confortante silenzio notturno.
Ma che origine ha lo zuppo di terra (inteso come espressione)? Le ipotesi sono varie. La prima e forse più diffusa è quella "ecclesiastica", teorizzata a suo tempo dall'abate Pompetta (Pio Calamaro Pompetta, nato a Montegranaro nel 1745; meglio noto come segretario particolare di vari pontifici, nonché inventore dei guanti senza dita e del cappello da croupier). Questi, di umile origine, sostiene sdegnato nel suo Mala educatio gentium marchianorum, sive Marchae merda iuvenes (Subiaco 1787): "Pare all'umile giudizio di me medesimo, confortato in ciò dall'opinione di grandi sapienti et eruditi con i quali ebbi a favellare sul tema, che la trista e soverchia fierezza de' nobili e cittadini marchiani dovette chiamare «zuppi di terra» i villici, i ciabattini, li stracciaroli et altri umili figli del Signore, con esso nome rimandando all'Antico Testamento et in ispecie alla Genesi ove si dice che Dio Padre fece l'uomo dall'argilla; ritenendosi invece a converso i nobili et i ricchi discendenti non di quell'uomo di argilla, e bene sì del rosso Adamo. Dimenticando guari a bella posta i secondi che anche nell'uomo di argilla fu posto il soffio divino e che questi, lo zuppo di terra, è uomo compagno ad Adamo et egualmente a lui valido e figlio dinanzi al Signore... Certo in questo inganno essi ebbero d'avvantaggio la stolida ignoranza, purtroppo sì diffusa nelle campagne marchiane, pronte sempre allo sputo in terra et alla bestemmia ma poco disposte allo studio della dottrina...".
Questa ipotesi, in epoca di cattolicesimo sociale, fu poi fatta propria da Rezio Riezio e Don Fabio Camalli, storici maceratesi che videro nell'abbruttimento delle masse da parte delle classi dominanti la radice di tante fragilità regionali e anche della possibilità di penetrazione delle perniciose idee socialiste (cfr. R. RIEZIO, Sor padro', alme' non me toccade la sposa!, in "L'abbise. Quaderni di storia e cultura marchigiana", 10/XXII, Macerata 1976. Per Camalli purtroppo non c'è bibliografia disponibile perché la sua perpetua, Zelmira, era usa adoperarla per attizzare il fuoco).
La scuola materialista, più vicina alle posizioni politiche progressiste e socialcomuniste, ha voluto invece vedere in quello "zuppo" una nota tragicamente reale e alimentare. In particolare essa ha fatto proprie le idee dello storico tedesco Guido Weitenpisser, formatosi a Heidelberg ma poi rimasto una ventina d'anni nascosto a Monte San Vito (AN), in seguito a una sordida storia di frequentazioni con studentesse e gravidanze negate. A margine del suo impiego da rappresentante della Manifattura Tabacchi di Chiaravalle, Weitenpisser portò avanti i propri studi storico-linguistici; esaminando certe carte ecclesiastiche, soprattutto, egli lesse come "Numero grande di contadini e poveri passarono all’altra vita, onde non coltivate le campagne fu tanto peggio nel 1588 e 1589 e 90 e 91: e però la poveraglia morì senza numero non solo, ma ancora non poche persone comode". Questo lo portò a ritenere che un grosso numero di contadini, in quel periodo, saziasse la propria tremenda fame solo con minestroni di radici di scarso potere nutritivo, e in seguito con veri e propri infusi di terra e erba, prima di trascinarsi in città per ricercare qualche elemosina o un qualsiasi lavoro dai mercanti italiani e orientali o dal clero. Agli occhi dei relativamente fortunati abitanti della città il muso emaciato e terroso dei campagnoli doveva apparire indimenticabile; ancora anni e decenni dopo la fine dell'emergenza, si terrorizzavano i bambini dicendo loro che, se non avessero mostrato rispetto per i genitori, a cena avrebbero avuto zuppa di terra come i contadini durante la carestia. Dalla zuppa di terra allo zuppo di terra, e dunque al povero villico ridotto in condizioni morali e materiali degradanti, il passo è evidentemente breve. Si veda G. WEITENPISSER, Essen und Kotzen in Zentralmarken, 1550-1650, Cozze di Monte San Vito-Uerdingen 1965, poi parzialmente tradotto e popolarizzato da A. LIMORTACCI, Ricchi di merda. Appunti per una storia proletaria del mondo e dei cani, Cremona 1973.
L'ultima ipotesi, minoritaria, ha a che fare con la ben nota immigrazione degli slavi nelle Marche all'epoca delle invasioni turche nei Balcani e comunque quando l'Italia viveva la propria rinascita rinascimentale dopo la crisi del Trecento. Questi immigrati, anche quando si trovavano costretti a esercitare lavori umili con retribuzioni certo non eccezionali, mostravano spesso un orgoglio peculiare, motivandolo con la propria passata condizione nella loro terra d'origine: certi si dicevano cioè condottieri o soldati particolarmente abili, altri artisti o artigiani di pregio, alcuni rivendicavano perfino uno status di nobili o di capi di una regione ("župa", in lingua serbo-croata).
Il popolino, tuttavia, non poteva ignorare la contraddizione fra l'arroganza degli župani e la bassezza delle loro esistenze; questo portò sovente a episodi di rozza e tagliente ironia nei loro confronti e alla coniazione del nomignolo župani de terra per quelli che erano impegnati in agricoltura. Nel corso delle generazioni si perse il senso e la parola stessa di župan, che si trasformò nel più simile dei termini neolatini, d'altronde singolarmente pregnante in quella espressione. Tale teoria fu illustrata per la prima volta a Civitanova Marche nel 1981 da Dragan Cvitanić, decano dei linguisti croati, durante il convegno "Adriatico, mare di mistificatori: per una nuova etica della truffa e del raggiro levantino". La conferenza, interessante e assai seguita in sé, è particolarmente ricordata perché negli stessi giorni si giocò anche l'amichevole Hajduk Spalato-Sambenedettese, conclusasi quasi senza incidenti di rilievo e in ogni caso all'insegna della sportività.
Gli atti del convegno, per chi volesse approfondire le tesi di Cvitanić, sono anzi disponibili in quasi tutti i baretti in cui si riuniscono gli ultrà della Samba.


* (ar)commeda': riparare, mettere a posto.
** tacca' su: impiccare.
*** stizzasse: arrabbiarsi.

mercoledì 7 novembre 2012

Come l'osso al ca'


Espressione di significato leggermente bivalente, ma riconducibile comunque a uno stesso ambito, «como [o "come"] l'osso al ca'» indica da un lato l'appropriatezza di un'attribuzione, dall'altro la necessità di completare in una determinata maniera un quadro che manchi di un elemento o che appaia in qualche modo errata.
"Ce dice ste scarpe cul vestito?", domanda ad esempio la donna marchigiana della buona società al marito, qualche minuto prima di recarsi a teatro (sono già in ritardo e l'uomo sbuffa). "Ce chioppa*", risponderà l'uomo, senza più nascondere la propria insofferenza, "come l'osso al ca'...". La donna, ovviamente, per nulla rassicurata da un giudizio tanto superficiale, esiterà di nuovo davanti allo specchio, vagamente maledicendo il giorno in cui ha sposato quel vagabondo; questo, tuttavia, non è fatto peculiarmente marchigiano ed esula dunque dalla nostra ricerca.
Molto spesso la formula è introdotta, per motivi di rima ed armonia, dalla frasetta "Ce sta"; poniamo il caso di due amici: il primo, che ha da poco ristrutturato una casetta, invita l'altro a bere una bottiglia nell'ambiente ancora spoglio. "Chi me sa ce 'ojo fa' lo studio", indicherà quindi, "Scinnò 'n ce fo gnè, ce lasso du poltrone e 'n giradischi e ce veno a sciora'**". "Ce sta", commenterà secco l'altro, già in preda ai fumi dell'alcool (ha colpevolmente dimenticato di pranzare); per poi completare la frase, dopo qualche secondo di pesca infruttuosa nella memoria: "...Come l'osso al ca'!".
Sembra naturale e non ha bisogno di grandi spiegazioni l'accostamento fra l'ovvia affinità tra cane e osso, da un lato, e una situazione, un paragone, un'attribuzione ben riuscita o ben pensata. Il quesito, invece, riguarda tempi e modi della nascita o dell'arrivo della formula in seno alla comunità marchigiana; quando e come, cioè, i nostri antenati hanno cominciato a utilizzare questa frase fatta che a noi oggi pare tanto naturale e istintiva.
Taluni, sulla scorta della grande autorità del Rubamazzo (Edgardo Sebastopoli Rubamazzo, latinista di enorme fama a metà dell'Ottocento; poi luogotenente del brigante Crocco, infine di nuovo latinista dopo i necessari chiarimenti con la giustizia), hanno avvalorato l'origine antica e in particolare latina della formuletta.
Essa doveva far parte di un nutrito gruppo di sententiae pensate per l'educazione dell'infanzia e della gioventù, passate pian piano in proverbio e divenute saggezza popolare e non più generazione. L'originale utilizzo pedagogico sarebbe testimoniato dalla struttura in rima della frase, che all'epoca doveva suonare: "Hic est mos/ tamquam cani os" (così si fa/ come l'osso al ca'). La frasettina serviva cioè ad ammaestrare i bambini e a sottolinearne i comportamenti corretti; il passaggio all'ambito degli adulti, magari mediato prima da un atteggiamento scherzoso, poi perdutosi col tempo dev'essere parso naturale. Così almeno sostiene il citato Rubamazzo nelle sue Divagazioni sulla lingua latina a margine di un bivacco di legittimisti (Tunisi 1864), volume a suo tempo proibito in Italia per via di una certa propaganda filoborbonica che lo pervade.
Un allievo del Rubamazzo, Ettore Puzza, centromediano del Genoa Cricket and Football Club e latinista almeno pari al maestro, volle precisare l'ipotesi del Rubamazzo. Secondo questa variante, la formuletta avrebbe sì radici latine, ma queste non affonderebbero nella classicità, bensì nel latino medievale; secondo Puzza, infatti, sarebbe stato un monaco di Fonte Avellana a vergare nel dodicesimo secolo una serie di commentari e di brevi note che, a partire dalla dottrina allora in voga del Bellum Iustum, tratteggiavano l'Homo Iustus, la Mulier Iusta, la Domus Iusta, ecc., insomma trattavano tutti gli ambiti della vita domestica e dell'esperienza umana. Fra gli altri manualetti di comportamento si ricorda anche quello dedicato al Canis Iustus, il quale avrebbe meritato l'Os Iustum. Questi insegnamenti sarebbero stati compresi in maniera solo parziale e semplificata dai contadini e dagli artigiani dei dintorni, e appunto da una corruzione della dottrina sarebbe nato in seguito il "Cani os", mutatosi poi in volgare nell'osso al ca'. Cfr. E. PUZZA, Ma allora non avete capito un cazzo. Il Medioevo frainteso, Sant'Ippolito 1900.
Assai diversa e rivoluzionaria è invece l'interpretazione di Gianni Sgnaolo, storico del movimento operaio, filosofo ed esteta, meglio noto per una lunga serie di conquiste femminili nel jet-set (egli utilizza la vecchia e collaudata tattica della logorrea ipnotica; dopo sei-otto ore di chiacchiere pesanti, ma in realtà inconsistenti e prive di concetti, la vittima è incapace di pensiero razionale e pronta ad accettare la corte del barbuto viveur). Secondo Sgnaolo, il modo di dire è recente, per la precisione ottocentesco; esso sarebbe stato messo in voga da certi liberali senigalliesi di ritorno dall'Ungheria, dove avevano combattuto di fianco a Kossuth. Nei decenni successivi sarebbe stato poi fatto proprio dal nascente movimento operaio della zona. L'osso cui si fa riferimento, stando a questa lettura, non sono altro che le reliquie dei santi portate in processione per le città marchigiane ancora impregnate di spirito papalino. Gli anticlericali della zona erano dunque soliti presenziare alle processioni e ad altre occasioni religiose e, facendo mostra di parlare d'altro, commentare ad alta voce "Ce sta... come l'osso al ca'!", con i menti rivolti ai venerabili ossicini In un paio di casi, anzi, il confronto era degenerato in rissa aperta, con il tentativo da parte delle frange estreme di rubare e profanare le reliquie. Si veda al proposito AA. VV., Risse, bambini smarriti e furti di porchetta: le feste del popolo nelle Marche postunitarie, Montegranaro 1976 (con il contributo dell'associazione produttori di tomaie). Per le tesi dello Sgnaolo, invece, secondo cui il passaggio in proverbio di quella formula radicale avviene nel momento della pacificazione post-bellica e dell'articolo 7 della Costituzione, si legga Preti di merda: la maturazione del sentimento politico fra Valmisa e Vallesina, in "Quaderni storico-estetici proletari", 2/XIII, Passo Ripe 1989.
Infine, l'ultima interpretazione, più fantasiosa, chiama in causa un certo Giovanni Coloccini, nato nell'Ottocento a San Paolo di Jesi. Costui, uomo inquieto, avrebbe fatto svariatissimi mestieri in giro per l'Europa e militato sotto diverse bandiere, finché, sul finire del secolo, non si sarebbe trovato in Egitto al seguito del noto archeologo prussiano Heinz Von Kliechingen-Paccasassi. Qui avrebbe partecipato a una sfrenata corsa all'antichità egizia, con la scoperta di diverse tombe e in particolare della magnifica mummia del toro Apis, accompagnata da quella del custode Giampiero. Il buon Coloccini, tuttavia, non avrebbe mai colto in profondità l'essenza della civiltà egizia, che pure lo affascinava; e, rientrato in patria, i suoi tentativi di spiegarne la grandezza ad amici e vicini di casa non sarebbero giunti a buon fine, anche per le carenze retoriche dello stesso Coloccini.
L'unica cosa che che filtrava dai suoi discorsi sconnessi, infatti, era la contiguità fra morte, cadaveri e Ka (qualsiasi cosa fosse); pareva anzi che fra ossa dei morti e Ka ci fosse una relazione inscindibile, da cui si sviluppò in paese e nella vicina Staffolo la costumanza di inserire nella chiosa dei discorsi "come l'osso al Ka". In seguito, si perse la memoria di Coloccini e dei suoi viaggi; ma il suo modo di dire, pur frainteso, vive e prospera.
Interrogato su questa apparentemente implausibile ipotesi, pare che Theodor Sehrfickbar, decano dei linguisti tedeschi, abbia risposto: "Ich sehe einen Bund... Wie den Knochen dem Hund" (ci vedo un legame... Come l'osso al cane). Oppure anche questa è un'invenzione recente o una trovata simpatica (cfr. H. BUCHWALD, Studiosi germanici al Carnevale di Fano, o dello zucchero filato sulla Tavola Peutingeriana, ed. it., San Costanzo 1999).


* Lett. "scoppia"; in gergo, vale "ci sta a pennello".
** Sciora' significa in origine uscire, spandersi, allargarsi; è inoltre tipicamente usato per lo spurgare delle olive sotto sale o per la simile necessità degli ubriachi di mettersi all'aria fredda per riprendersi. In questo caso significa "rilassarsi".

lunedì 18 giugno 2012

'Na botta ndu che piscia

Espressione abbastanza diffusa nella provincia anconetana, 'na botta ndu che piscia tradisce - per la sua materialità brutale - la probabile provenienza jesina; essa riflette infatti in modo chiaro la mentalità e lo stile propri dell'operosa città che ha dato i natali a Federico II.
Lo spirito jesino, non in contrapposizione d'altra parte a quello prevalente nella regione, è in effetti popolare e imprenditoriale assieme. La progettualità anche ambiziosa si accompagna perciò senza problemi a una indubbia schiettezza, che diviene a volte rozza; ma mai squallida né tantomeno untuosa. Nel caso in esame, ci si riferisce con la formula - che è dunque esclusivamente maschile - all'avvenenza e alla desiderabilità di una donna. "Ce sae gido, dopo, a la festa de Claudia?", chiederà per esempio un tale al suo compagnone. "Scì, ce so' passado un menudo, verso tardi...". "A lia l'he ista? 'N te pare secca rrustida*?". Mbè, via, siguro 'n ce fai le salcicce... Cumunque te dirò, io je la darìa na botta ndu che piscia. Via, adè na olta je domando el nummero e vedemo sci se pole fa' qualco'...".
L'espressione ha a volte, ma non necessariamente, una certa valenza concessiva, quasi che la botta in questione fosse octroyée con grande liberalità dal maschio alla femmina in oggetto. "Mmh", mormorerà appena il ragazzo in spiaggia, seguendo con lo sguardo la giovane che gli viene indicata da un amico, "Nnè che sii tutta sta cocchia**, prò na botta ndu che piscia...".
Lo stile materialistico e intrinsecamente produttivo dell'espressione (che alcuni, vedi il Budre***. hanno definito addirittura "protocapitalistica") ha fatto pensare a una sua genesi nell'ambito artigianale che costituiva buona parte del tessuto economica delle città medievali e moderne e che tutt'ora caratterizza la regione adriatica. In particolare, la scuola critica finlandese, guidata dal Kuulo (Paavo Kuulo, di madre monteluponese; a lungo assessore alla cultura della provincia di Helsinki, propose un gemellaggio fra ciauscolo e salame di renna), sostiene la cosiddetta "ipotesi falegnamistica". Essa presuppone che, in tempi non precisati ma grossomodo tardomedievali, un giovanotto interessato a ottenere la mano di una figlia di bottegai osimani abbia mostrato la propria affidabilità e il proprio valore alla famiglia di lei compiendo una serie di lavoretti domestici; in altre parole, il rozzo e meschino mercante avrebbe approfittato del giovane innamorato per non pagare una serie di migliorie e riparazioni necessarie. Una di queste fatiche fu, sempre stando ai finlandesi, il consolidamento e l'imbollettamento comme il faut della latrina di casa, posta a ridosso delle mura cittadine. Lo spasimante, riferendo agli amici dei progressi della propria liaison, si sarebbe quindi riferito a quest'ultimo lavoretto in questi termini: "Dopo ieri so' gido a casa sua, el padre m'ea chiesto sci passao... Ha toccado a daje pure 'na botta ndu che piscia. Speramo che je va be' e che me lassa sta fiola, ch'io d'aggià comincio a straccamme de sfregnetta' per lora". Il passaggio logico successivo è chiaro: la riparazione della latrina assunse presto il significato di atto interessato per eccellenza, e dunque esser pronti a compiere quel lavoretto valse nutrire una passione per una donna. Dallo sposalizio alla semplice attrazione sessuale, il passo non dovette poi risultare lungo. Cfr.: P. KUULO, L'artigiano e la fica: quando due mondi si incontrano, Rovaniemi 1971.
Il luminare congolese Nzifu Gulumbu, professore di Storia medievale e Balli di gruppo all'Ateneo del Katanga, ha proposto una piccola variazione a questa ipotesi, pur mantenendo grossomodo inalterato il contesto storico: egli, influenzato dalla visione di un vecchio film con Paolo Villaggio, ha creduto che non si debba supporre la centralità nella vicenda una figlia di famiglia, bensì quella di una vedova de jure o de facto, tale Cunegonda da San Michele al fiume. Ella, ancor giovane e piacente, avrebbe a un certo punto richiesto l'aiuto di un fabbro per rimuovere una debilitante e ormai ingiustificata cintura di castità (era giunta notizia certa che il marito, Sciapigotto da Pongelli, era deceduto in Anatolia in uno scontro con i Peceneghi). Nei giorni seguenti il fabbro avrebbe riferito a mezza bocca e solo ad amici fidati di aver dato "un colpo ov'ella minge" alla nobile vedova; in seguito, anche per le pressioni del parroco Gustino, i due sarebbero convolati a giuste nozze. Alcune pergamene, ritrovate nell'Ottocento da un prelato che cercava dei fogli di cui necessitava per cacare, recano anzi la testimonianza del viaggio di nozze dei due a Montefelcino (PU; allora, tutt'al più, Ducato di Urbino). Si veda N. GULUMBU, Una vicenda romantica del basso Cesano, in "Dagli all'esploratore: quaderni di storia e cultura africana", 3/IX (1985).
Più complessa, e maggiormente centrata sul problema dell'accumulazione del capitale e sulla storia economica in generale, appare la teoria di Lorenzo von Lorenz, studioso austriaco di etica del capitalismo e formidabile sputatore di noccioli di brigògolo****. Costui, nelle sue usuali peregrinazioni per la Marca, raccolse la leggenda di una donna tanto ricca quanto eccentrica e insopportabile, unica figlia di un facoltoso possidente corinaldese, tale Sabatini. La donna in questione, la fiola d'Sabati', sarebbe stata rossa di capelli, di carattere forte e imperioso e di comportamento mascolino: per molti essa era anzi una strega, tanto che i braccianti della zona si sarebbero rifiutati di lavorare i suoi vasti campi dalle parti di Barbara (la donna, altro tratto curioso e malvisto, era solita recarsi a pisciare nei poderi). La riluttanza delle classi umili a collaborare con la supposta strega poteva certo mettere in grave difficoltà le sue finanze, non fosse stato per l'aiuto prestatole dal vicino Fiorenzo Gagliarducci: questi avrebbe personalmente provveduto a svolgere tutti i lavori necessari alla manutenzione dei campi: tra questi, forse il più gravoso era ed è tutt'ora la pulizia dei fossi, quelli appunto utilizzati dalla fiola d'Sabati' per le proprie minzioni. In questo senso Gagliarducci avrebbe in seguito riferito ai compaesani di aver dato alla ricca possidente "una botta dove piscia"; alle proteste querule di questi ultimi, che lo tacciavano di collaborazione col demonio, il villico avrebbe semplicemente risposto: "Ma po' sta non polede sta' zitti e bada' a camina'? Sci voa' staade un tanti' più diedro a la cocchia capace vedeade meno streghe...".
Il nobile sforzo del Gagliarducci gli avrebbe poi permesso, sempre per il Lorenz (cfr. V. v. LORENZ, La componente amorosa nell'economia di una regione italiana: il caso marchigiano, Wiener-Neustadt 1966) di far breccia nel cuore dell'ereditiera e di sposarla, dando vita a una nobile schiatta di proprietari terrieri e, molto tempo dopo, autoferrotranvieri.
Infine, qualcuno ha voluto mettere in relazione la formula centromarchigiana con quella inglese, "I'd hit it", molto in voga al momento su internet e in generale fra le giovani generazioni di tutto il mondo. Secondo Voinjiro Salamoto, sociologo nippo-senigalliese autore di Garagoj e meme: l'antico, il moderno e quella santa donna di tua madre (Gradara-Nagoya-Rotterdam 2011), il concetto di "dare una botta", "colpire", sarebbe stato originariamente assorbito dai marinai inglesi e scozzesi di passaggio per il porto di Ancona, e da lì ritrasmesso a tutto il mondo nel loro idioma dominante. Contro questa interpretazione stanno molte voci ascoltate e autorevoli; ma il Salamoto ha recentemente chiarito in un breve pamphlet (E sai quantu cazu me ne frega?, Pietralacroce-Heidelberg 2012) che la cosa lo lascia sostanzialmente indifferente. Resta dunque valida, in linea teorica, anche quest'ultima ipotesi che porterebbe nell'era telematica un pezzo di antica saggezza popolare.

* secca arrostita, magra in maniera impressionante.
** vagina; per estensione, donna di bell'aspetto.
*** Johann Budre, ordinario di Marchigianistica alla Reale Accademia di Studi Superiori di Stoccolma; noto soprattutto per avere inventato la regola per cui - nel gioco detto "tedesca" - il gol realizzato di culo elimina all'istante il portiere trafitto.
**** Albicocca.

lunedì 7 maggio 2012

Magna' su la testa (a qualcu')

Modo di dire ben diffuso in tutta la provincia anconetana, "mangiare in testa a qualcuno" descrive un'immagine di per sé molto precisa ed evocativa, che ha poco bisogno di spiegazioni: evidente che si tratti di un modo per significare una superiorità netta e indiscutibile, che non può venir messa in alcun modo in dubbio e che segna fin da principio l'esito finale di una gara, di un sfida, di uno scontro di qualsiasi genere.
Per fare un esempio che tutti possono chiaramente intendere, un incompetente dirà al proprio amico seduto accanto a lui al tavolino di un baretto di Barbara (AN): "Oh, el sai? A me me sa propio che adè 'n se ne troa 'n antro forte quante Cristiano Ronaldo...". Al che l'amico, volgendo la testa e con un guizzo negli occhi acquosi e bonari che sono gli occhi di tanti marchigiani (già nel loro sguardo si avverte un che di balcanico e di strutturalmente fatalista), risponderà allora verosimilmente: "Ma lassa gi', che Messi je magna su la testa a quelo recchió. Bada a sta' zitto, va', ché fe più bella figura. Que dighi, arbeémo*?".
Simili comparazioni, ovviamente, possono essere svolte anche in ambito più umile e familiare e assai meno competitivo. "He isto? ha sposado el fijo de Mengo! A la moje nna conoscio, prò dice che è birba**". "Io la conoscio: è birba perdéro, Me sa che a lue je magna su la zocca***. Va be' che non ce ole la scienza de Marcó****".
Come l'espressione sia nata e si sia diffusa è questione ampiamente dibattuta. Taluni vogliono che la spiegazione a tale colorita metafora sia da ricercare nel Medioevo, vero momento di formazione e fissazione dell'identità regionale, e in particolare nella ricca tradizione monastica che caratterizza le Marche: capofila di questo schieramento è stato Arvidas Marciulonis, filologo, storico e teologo lituano deportato in Siberia dai bolscevichi nel 1919 dopo aver rifiutato di prestare il proprio pettine a un commissario politico dell'Armata Rossa (solo le insistenze della sinuosa moglie Morositas gli valsero più tardi la grazia). Nella sua squallida baracca nella taiga, grazie anche alla vicinanza e all'incoraggiamento dei compagni di detenzione (un contrabbandiere armeno e un orso polare), Marciulonis ebbe comunque la forza di portare a termine la propria opera più significativa, Da Fra Cazzo da Velletri al Borussia Mõnchengladbach: il contributo del monachesimo alla definizione di un'identità europea. Il ponderoso volume, originariamente vergato con olio d'aringa su carta paglia, conobbe solo edizioni parziali e imprecise; il suo influsso ha comunque valicato i confini statali e i decenni, se è vero che qualcuno ne ha individuato un sentore anche nel riuscito monologo di Josè Mourinho dal titolo Non conosco Lo Monaco (Milano 2009).
Ad ogni modo, per quanto riguarda l'espressione in oggetto, Marciulonis, in questo confortato dal contrabbandiere ma non dall'orso polare, riteneva che essa derivasse da un'antica pratica degli ordini mendicanti: ossia, per testarne la fede e l'umiltà, il priore di una comunità consumava di tanto in tanto i propri pasti sul capo dei novizi, munita a questo scopo di comodo spazio libero (la cosiddetta chierica). In questi casi il superiore sceglieva pietanze particolarmente unte e bollenti - frittata di patate, crostoni con formaggio fuso, zuppe e passati di verdure, polenta, ecc. In ogni caso, assistere a tale trattamento chiariva immediatamente ai testimoni oculari chi fosse il superiore e chi il fraticello; sicché consumare il pasto sul capo di un altro divenne, in breve tempo, simbolo e sinonimo di evidente superiorità. Da qui, per il Marciulonis e per il contrabbandiere, ma non per l'orso polare, la genesi del modo di dire.
Altri (cfr. O. POLARE, Sulle vere origini del folklore marchigiano, Vladivostok 1925) ritengono che la visione quasi umoristica del pranzare in capo a qualcuno nasconda una realtà storica assai più brutale. È cosa nota e risaputa, infatti, che diverse tribù e popoli germanici apparvero a varie riprese nelle Marche: dalle prime discese dei razziatori diretti a Roma, proseguendo poi attraverso i Goti di Totila che si stanziarono a Osimo e i numerosi insediamenti longobardi sparsi per la regione, per finire infine con le tracce del risolutivo intervento dei Franchi, c'è sicura testimonianza di una lunga frequentazione fra le genti marchigiane e quelle popolazioni ancora feroci e barbariche. Non è assurdo, dunque, ipotizzare che il mangiare sulla testa sia il retaggio edulcorato di antiche costumanze, cui i contadini e i borghesi galli e piceni, ormai latinizzati, dovettero assistere con orrore: se tutti ricordano quella Rosmunda che dovette bere nel cranio del proprio padre, spolpato e modellato a guisa di coppa, non c'è motivo di escludere l'esistenza storica di una Rosmunda urbinate o maceratese, costretta a nutrirsi dalle (delle?) membra di chissà quale familiare...
D'altra parte, come suggerisce il linguista ucraino-americano Joe Vinko in un articolo uscito per la Gazzetta del Mezzogiorno al posto della cronaca di Bari-Juve Stabia, se è acuta e condivisibile la teoria del Polare, sussiste comunque anche la possibilità che una tale pratica di umiliazione del corpo del nemico sia stata praticata dai Galli Senoni - noti cacciatori di teste - ben prima dell'arrivo dei cosiddetti barbari, e anzi prima della battaglia del Sentinum (295 a. C.) che doveva dare inizio a otto secoli di dominio romano sulle odierne Marche. I romani, non meno crudeli ma assai meno truci, l'avrebbero anzi abolita. Si veda in ogni caso J. VINKO, Bari e Juve Stabia a braccetto verso la salvezza ne "La Gazzetta del Mezzogiorno", 5 marzo 2012.
Di quella ferocia antica, che sia stata praticata o subita dai marchigiani, o per meglio dire dai loro antenati, non resta oggi che un ricordo esorcizzato; ma, anche dietro l'eufemismo, l'odierno modo di dire conserva quella sicura ed evidente riprova della superiorità di un uomo su altri uomini di cui tanta crudeltà doveva essere una testimonianza piuttosto eloquente.

* Beviamo di nuovo.
** Furba, sveglia.
*** Testa.
**** "La scienza di Marconi", ossia una particolare preparazione e competenza specifica.

giovedì 2 febbraio 2012

La sera orsi, la madina arsi

Modo di dire dall'utilizzo chiaramente limitato all'ambito della notte brava, e della seguente risacca, esso - com'è evidente a tutti- trova il suo corrispondente quasi perfetto in italiano nel rozzo detto "Di notte leoni ecc.". Con la differenza, tuttavia, che non solo nella versione marchigiana si utilizza nella prima parte della frase un diverso animale, ma si evita poi la volgarità gratuita e (diciamolo) fastidiosa, ricorrendo invece a un'aggettivazione all'apparenza più neutra e precisa, che ha tuttavia il vantaggio di un'allitterazione non banale.
La formula, non c'è neanche bisogno di specificarlo, si usa fondamentalmente in due occasioni e due contesti: tra ragazzi che scherzino su una loro serata, o che stiano prendendo di mira in particolare un amico che ci è rimasto bozzado, oppure quando è un adulto - uno di quegli adulti gravi e seriosi che ancora esistono in provincia, dove la pornografia dell'eterna giovinezza non ha attecchito come in città - a rivolgersi a un giovane o a più giovani. "Comm'è, oggi 'n te ne a* de beve? O leggera...", dirà perciò un ragazzo rivolgendosi all'amico che fatica a mandar giù una tazza di tè, richiesta al bar del paese in luogo della solita birra. "Ma bada a camina'! Te vara a sto poccialatte**, vole veni' a 'mpara' a beve a me...". "Eh, prò intanto te fe na tisana: que te manca, l'idradazio'? La sera orsi la madina arsi, nn'è ve'?".
Nel caso invece in cui sia un vecchio - lato sensu - a rivolgersi ai ragazzi reduci da un tour de force alcolico o d'altro genere, resi riconoscibili dallo sguardo stanco e dal pallore funereo, non mancherà un minimo di complicità: la stessa connotazione sarcastica ma non derisoria del detto ne prova il fondo di bonarietà. "O munelli, emo vejado stanotte?". "Eh... È cucì...". "V'ho visto da nfra le persiane, stamadina presto, tutti taccadi a le cannelle de la piazza: como se dice, la sera orsi e la madina arsi...". "Eh... È cucì..." chioseranno a quel punto i ragazzi, senza riuscire a trovare nulla di più acuto e intelligente per proseguire il discorso (vedi anche, a questo proposito, F. MORICHINI, La mattina dopo la sera del dì di festa. Dialettica marchigiana in condizioni estreme, Montecassiano 1958).
L'origine del detto non è chiara. Vi sono in effetti almeno due diverse teorie che si scontrano frontalmente. La prima è quella del prof. Crocro dell'Ateneo di Bellinzona-Mendrisio; questi, allievo del Windisch-Grätz ed emulo dei suoi rivoluzionari studi in materia di alimentazione, ritiene che l'arsura evocata nel modo di dire sia un eufemismo che coprirebbe una realtà ben più tragica. Questa avrebbe a che fare con una mitica battuta di caccia, avvenuta nella notte dei tempi o per meglio dire nell'Alto Medioevo, quando l'Europa era ricoperta di nere foreste impenetrabili e le Marche - oggi tanto levigate - non facevano eccezione a tale regola. Per essere più chiari, Crocro sostiene che vi sia stata in quell'epoca dalle parti del Monte Nerone una leggendaria caccia all'orso, cui avrebbero partecipato di sicuro gli esponenti più in vista delle famiglie nobili marchigiane, in particolare di quelle dell'entroterra urbinate (si suggerisce la presenza di un Brancaleoni, di un Ubaldini, di un Montefeltro). Quella caccia sarebbe terminata con l'uccisione di uno o più plantigradi e con l'allestimento di un grande banchetto; ma non sapevano, i tapini (ancorché nobili), che il fegato degli ursidi è velenoso per gli esseri umani: sicché la loro presunzione di voler consumare dei fegatelli come culmine della loro gran cena li portò già durante la notte a un'intossicazione fatale. L'aspetto delle salme, con la pelle consumata e quasi bruciata dalla bomba vitaminica, valse a suggerire l'idea di un'arsura mortale; e la sentenza "La sera orsi la madina arsi" passò ben presto in proverbio (cfr. A. CROCRO, La golosità nei secoli. Per una storia ragionata degli jótti, Lecco 1996, e anche E. BORGOGNONI-TANCREDI, Mortalità accidentale de' nobili della Marca, San Costanzo 1875).
Un'altra ipotesi pone invece la genesi di questo modo di dire ben più addietro nel tempo. Si fa dunque riferimento, in questa tesi particolarmente cara agli storici del linguaggio di scuola germanica, alla ben nota scorreria dei Galli Senoni, ultimi arrivati e più meridionali tra i Celti italiani, i quali all'inizio del IV secolo a. C. giunsero a saccheggiare Roma per poi ritornare nelle loro sedi sull'Appennino marchigiano. È noto da molteplici fonti e esplicitamente ammesso anche dagli storici romani che la battaglia sul fiume Allia, che aprì ai Galli le porte dell'Urbe, fu vinta soprattutto grazie all'inusitato furore e al coraggio sovrumano e incosciente dei guerrieri Senoni, non numerosi né particolarmente dotati di acume tattico.
Secondo alcune interpretazioni di certi passi classici, il furor gallicus che atterrì le legioni era soprattutto quello di certi combattenti vestiti solo di una pelle d'orso, i quali, anche per l'assunzione prima della battaglia di alcune droghe eccitanti e allucinogene, parevano invasati e invulnerabili. Si sa d'altronde che i guerrieri-orso, i cosiddetti berserker, sono una realtà storica accertata nel mondo celtico e germanico; ma la loro prima apparizione in Italia colpì i nemici tanto da sbandarli e portarli alla disfatta.
D'altra parte, è altamente probabile che la maggioranza di quegli "orsi" non sopravvisse alla battaglia, sia per le ferite riportate, sia per le conseguenze venefiche delle sostanze assunte. Il giorno dopo la grande battaglia, perciò, furono innalzate delle grandi pire su cui vennero bruciati i cadaveri dei caduti e, con particolare solennità, quelli dei guerrieri-orso. Il distico "La sera orsi/ la madina arsi" trarrebbe perciò origine da quell'episodio e celebrerebbe quegli eroi che non potevano essere ricordati in altro modo, data l'assenza di complessi monumentali e di simili mausolei nei villaggi gallici. Dopo la conquista romana dell'Ager gallicus e l'assimilazione dei Senoni, la genesi storica della formula e il suo reale significato sarebbero andati perduti; ma quella semplice ed evocativa frase sarebbe invece rimasta nel patrimonio folcloristico delle genti dell'entroterra anconetano, inconsapevoli di rinnovare in quel modo, di tanto in tanto, la propria lontana e gloriosa origine gallica.
Tale interpretazione, diffusa dal linguista tedesco di Boemia Karl-Heinz Kaninchenfresser nel suo Ebbrezza e virilità: le origini guerresche e comunitarie dell'ubriachezza molesta (Nürnberg 1851), fu poi tacciata dalla protofemminista inglese Susan Dishdropper di maschilismo, esaltazione della violenza, nazionalismo germanico e propagandismo di un'idea antica e ingiusta di società. In un suo lungo e articolato saggio, uscito in seguito a Bamberga e concepito come risposta ideale a tali infamanti accuse, il Kaninchenfresser invitò la suffragetta a tornare in cucina. In seguito i due ebbero una relazione che produsse tre figli e un romanzo storico a quattro mani (Lady Godiva, o l'amore al modo degli animali, Norwich 1866).

* Va; la vu intervocalica, nei dialetti marchigiani centrali, è spesso debole e talvolta viene del tutto eliminata.
** "Succhialatte", marmocchio.