giovedì 24 novembre 2011

Bada a camina'

Espressione diffusa in tutta la provincia anconetana, dal capoluogo all'arceviese, è esclamazione moderatamente piccata, che invita l'interlocutore a stare al proprio posto, a badare ai fatti propri, a non contestare l'operato degli altri e in ultima analisi a non esprimere posizioni troppo baldanzose o magniloquenti. La metafora utilizzata è d'altronde chiara: con essa si spinge il presuntuosetto - vizio tra i meno apprezzati in una società, quella marchigiana, che è sì individualista ma fortemente egualitaria per motivi storici, nonché sarcastica per indole - a fissare piuttosto la propria attenzione sul cammino che va facendo, dunque ad abbassare la testa e lo sguardo e allontanarsi dal cielo e dall'invasione di spazi altrui.
Si tratta perciò di una reazione a un atteggiamento cui si assiste, ad esempio all'apparizione sulla scena di un paccaciocchi (cfr. voce); essa mantiene tuttavia un tono più bonario, a volte affettuoso. In altri casi, invece, serve a rimarcare con la propria secchezza la distanza tra le due parti in causa e a diffidare l'infastidente dal farsi di nuovo i fatti altrui.
L'origine del modo di dire si perde nella notte dei tempi: Bjorn Eriksson-Ravelli, antropologo svedese, credette di averne individuato la genesi nella Rift Valley, e precisamente in una lunga striscia di terreno vulcanico che ha trattenuto le impronte fossili dei nostri progenitori. Si tratta per l'esattezza dei passi di una coppia di ominidi, la cui sensazionale scoperta, avvenuta nel 1976, fu per più giorni strillata a tutta pagina dai giornali di tutto il mondo (ne parlò anche la "Voce Misena", in un breve editoriale a firma del vescovo Odo Fusi Pecci). Essi paiono avvicinarsi, poi si biforcano di colpo e si perdono nelle nebbie del tempo; sostiene Eriksson-Ravelli in un suo noto saggio (cfr. B. ERIKSSON-RAVELLI, Spostati dal mio sentiero evolutivo, per cortesia, in AA. VV., Qualcuno avverta se arriva una tigre: la nascita della conversazione nella Preistoria, Stockholm 1982) che a quella testimonianza fossile ben si attagli il seguente dialogo, a suo dire intrattenuto dagli Erectus: "Oh!" (avvicinandosi). "Oh. Qu'arvoi?". "Te pare na felce, quella?". "Que m'ha da pare'?". "Na felce, na selce, como se dice. Te pare na piedra? Damme chi, te fo vede io como se taja la piedra. 'N vorrai gi' a caccia cu quel ciaffo?". "Ma bada' a camina', va', pensa a le selce tua e a quel budre de tu madre" (qui le orme si allontanano).
La maggior parte dei filologi, tuttavia, preferisce allontanarsi dallo spinoso ambito preistorico e attenersi alle testimonianze scritte: in particolare, pare che una certa sensibilità quanto alla difesa del proprio cammino e dei propri interessi di fronte alla curiosità altrui si sia acuita e rafforzata con l'epicureismo, che insegna a viver nascosti e insegna dunque a rifiutare le rotture di coglioni, come dimostrato da Peppe Kant, pronipote recanatese del noto filosofo baltico (vedi P. KANT, Le principali dottrine e scole maggiori della filosofia mondiale illustrate ai ciabattini e ai carrettieri, Monte Vidon Combatte 1873). D'altra parte, una certa gelosa tutela del privato diviene prassi nella tarda Età Classica: è nota a questo proposito la risposta che l'imperatore Adriano diede a un certo Gaio Pipo Baccolone, senatore anconetano di antica e nobile schiatta. Quest'ultimo continuava a impicciarsi nella salute, in effetti malferma, del princeps, vantandosi di certi infallibili medicamenti dorici. Finché, un bel giorno, l'imperatore non affrontò con un bel sorriso Baccolone e gli disse: "Animula vagula blandula, deambula tua via; noli meam intersecare, sed prudente observa passus tuos". La risposta piacque molto allo sportivo Baccolone e ai biografi imperiali presenti; per qualche via, dunque, essa dev'esser giunta fino a noi.
Si sa d'altronde con certezza che questa espressione, di perfetta chiarezza e intellegibilità, oltreché impeccabile nella forma, si è diffusa nei secoli anche nei paesi di cultura non latina, e in particolare nel Nord Europa. Alcuni ritengono che tale penetrazione sia avvenuta per il tramite della Chiesa Cattolica e del suo latino maccheronico; si ricorda ad esempio che nei dintorni di Ipswich un diacono ebbe a rispondere alle accuse e ai vaneggiamenti di un eretico, il quale metteva in discussione i dogmi e la gerarchia e proponeva anzi certe proprie riflessioni teologiche che aveva tratto nelle pause del proprio lavoro di stalliere del conte normanno Roger Le Poutipou, "Cave caminare, aut appello milites..." (Bada a camina', scinnò chiamo le guardie; cfr. W. TINKLERBELLY, Il Norwich City FC e altre forme di religiosità popolare nell'East Anglia, ed. it., La Spezia 1999). Possibile che tale risposta, in cui si esprimeva comunque l'arroganza tipica della Chiesa di Roma al culmine del Medioevo, abbia colpito le popolazioni del luogo e sia passata in proverbio, dapprima in una buffa e sgrammaticata ripetizione della formula latina, in seguito adattandosi alla lingua inglese. Altri trova invece improbabile un simile passaggio e giudica che il modo di dire sia da considerare tipico di certe zone dell'Italia e confinato a quelle lande che si allargano tra gli Appennini e il Mare Adriatico; è il caso di Ruggero Coso, etnologo e glottologo di nascita nizzarda e adozione ascolana, il quale nel suo Dizionario ragionato dei lemmi piceni e senoni (Trodica di Morrovalle 1901) così redige la voce "Bada a camminare": "Esortazione di ambiente popolare, di registro vario ma per lo più piccato ovvero scherzoso; confinata alla Marca e precisamente alla sua porzione centrale vale Pensa a' fatti tuoi, o anche Non proferire smargiassate. Tende per sua natura a troncare poco urbanamente una conversazione indesiderata (...)".
In ogni caso, checché ne pensi l'auctoritas del Coso, un gustoso aneddoto trova quel modo di dire impegnato in una dimensione non soltanto marchigiana. Lo racconta il naturalista e divulgatore Seymour Nighthandler nel suo godibilissimo Livingstone segreto: motti e vizietti di un esploratore (Edimburgo-Rotondo di Sassoferrato 1994). Nello specifico, è rievocato un momento dell'incontro tra il dottor Livingstone e Henry Stanley, quando il giornalista individuò il medico scozzese in Tanganika e lo accompagnò per un certo tratto nell'ostile regione dei laghi Bongo. Qui, ad un certo punto, Stanley invitò l'anziano missionario a far attenzione alle sabbie mobili, ai serpenti e alla altre insidie del terreno; al che Livingstone replicò, con spirito più scozzese che vittoriano, "Care about walking, my younger friend: I used to be among niggers when you still stank of milk... (Bada a camina', giuinotto; stacéo 'nfra mezzo ai negri co' te anco' sapéi de latte...)".
Non si sa da quale fonte Livingstone abbia desunto un'arguzia così evidentemente marchigiana, se per contatto con le famiglie inglesi già allora abituate a soggiornare nei colli anconetani o con i mercanti che transitavano nel porto dorico, o se invece l'abbia tratta dalla propria preparazione culturale e filosofica di stampo classico. Si sa soltanto che in quella circostanza anche il famoso e presuntuoso Henry Stanley dovette, come usa dirsi, abbassare le orecchie; il che dimostra se non altro l'immediata comprensibilità e l'indiscutibile efficacia dell'espressione, vero vanto della retorica marchigiana.

mercoledì 16 novembre 2011

La grazia del porco

Modo di dire compiutamente regionale per diffusione e per valenza semantica e ideale, esso esprime con una semplice quanto evocativa giustapposizione il doppio volto della civiltà marchigiana: contadina, senz'altro, ma anche classica e cortese quant'altre mai in Italia e in Europa Occidentale. Accusare qualcuno di possedere appunto la grazia del porco, scrive non a caso Guido Piovene nelle sue Note a margine del viaggio in Italia vergate su certi tovagliolacci di trattoria, Milano-Mondolfo 1959, equivale a "tacciare qualcuno di essere carente di quell'armonia, di quella compiutezza, di quell'educazione al bello e al classico che è il tratto caratteristico del paesaggio fisico e storico delle Marche". E aggiunge: "Il possesso di una grazia suina - si ricordi sempre che la grazia è un dono di Dio all'uomo creato a Sua somiglianza - distingue perciò dall'essere umano a tutti gli effetti, dal cittadino della Città Ideale, colui che invece ne è solo un pallido e inefficiente surrogato (...)".
"Vara quel ch'hai fatto, per dindo, ce voi bada'?", dirà per esempio la moglie al marito che ha appena urtato un soprammobile, gettandolo in pezzi sul pavimento. "Bada a sta' zitta: que, ho fatto apposta, te pare? Me s'è voltigado...", ribatterà l'uomo; "Scì, ma a te te se voltiga nigo', cj hai la grazia del porco". Più precisamente ancora, la grazia del porco è quella che contraddistingue chi si accosta a un'arte liberale - la scrittura, la cucina, la conversazione, il galateo - ma lo fa con modi rozzi e porcini e con risultati coerenti a tale impostazione. "C'era bisogno de discorre nte quela maniera? Adè vojo vede quando cj archiama lì casa... Ma tanto te cj'he la grazia del porco, a dittelo è como da' fiato a la bocca": questo invece il lamento della donna finalmente ammessa a una dimora prestigiosa e ancora sconvolta dall'ingenua franchezza del compagno, che di fronte alle imprecisioni e alla trombonaggine del padrone di casa non è riuscito a trattenersi dal metterlo a posto con spietata e francamente eccessiva pignoleria. Si tratta perciò di un modo d'essere a tutto tondo, che comprende e unifica varie grossolanità e goffaggini, dal piano tutto fisico della coordinazione a quello ben più elevato del tatto e dell'empatia.
Non è dato sapere con certezza da dove nasca l'espressione; in una fortunata monografia, il Sardoncini (Federigo Sardoncini, decano dei filologi del Regno nonché campione d'Italia con la Pro Vercelli) propone un'ipotesi molto seducente: a suo avviso, la locuzione fu cucita addosso a Messer Rustigotto da Montefeltro, biscugino cantianese del duca Guidobaldo; questi - Rustigotto, intendiamo - si distingueva per il suo fare dozzinale, che stonava nella perfezione di quella piccola e inimitata corte rinascimentale. Si trattava purtuttavia di un parente del duca, sicché anche a lui erano dovute lodi e attenzioni; per questo, stando al Sardoncini (cfr. F. SARDONCINI, L'ineducazione e la goffaggine nell'Umanesimo marchigiano, Liverpool 1922; ristampato in ed. anastatica, Moie di Maiolati 1998), monsignor Baldessar Castiglione dedicò a Rustigotto un libro intero - il quinto, comunemente ritenuto perduto - del suo notissimo manuale del Cortegiano. Sardoncini allega anzi brani originali, da lui ritrovati presso un'umile affittacamere di San Lorenzo in Campo una sera che si doveva mangiare il crostone di formaggio alla griglia ma non si trovava la carta per dar fuoco alle fascine.
Peraltro l'albergatrice, una certa Maria Santolini, sedusse quella sera stessa l'eminente studioso e divenne in seguito la madre di Turno, l'unico figlio maschio del luminare; ma queste sono questioni non connesse alla ricerca ed è invece molto meglio passare ad analizzare le pagine del Cortegiano dedicate a Rustigotto: "Essendo dunque comparso al desco ducale il magnifico messere Rustigotto, di colorito pavonazzo per le corse che elli andava facendo nei pressi di Urbino dietro alle donzelle e alle contadine, volendo elli pigliarle per la gonnella e rovesciarle sull'erba, senza riguardo alcuno che poggiassero la schiena in terra o invece se ne stessero con il deretano, come usa dire, pizzuto, sì da costringerlo ad accostarsi ad esse more animalium, detto Rustigotto chiese cosa fosse da porre in tavola, dacché tutto quel correre che aveva fatto quel giorno sin verso Fermignano e Casteldurante gli aveva pizzicato l'appetito; dopo che gli fu risposto che si sarebbe mangiato porco finissimo di Carpegna presentato in tutte le salse, egli ne gioì grandemente e, sfregandosi con fragore le manone, che aveva titaniche e terrose, andava ripetendo che quel porco che allevano a Carpegna, in luoghi forse non ameni e ubertosi come vi sono in altre contrade d'Italia, ma certo ricchi di ghianda e d'altro cibo che al maiale aggrada, era il suo nutrimento prediletto e che ne mangiava sempre con vero compiacimento; al che la duchessa Elisabetta replicò con voce carezzevole e affettuosa che tutto quel maiale che soleva mangiare aveva preso dimora nell'anima stessa e nei sentimenti di Rustigotto e che andava quasi formando le sue azioni; però che, disse sorridendo Elisabetta, ben si poteva dire che l'ammirevole leggiadria con cui egli si muoveva per le colline e per i prati poteva più giustamente chiamarsi grazia del porco, perché era da quella creatura di Dio che Rustigotto aveva dedotto i propri squisiti modi. Elisabetta disse queste ultime parole con tono pacato ma ben udibile, e parvero a tutti coloro che vi erano attorno frasi ben scelte e ben formate, che presto passarono in proverbio, arricchendo la reputazione già splendente e santa della Duchessa d'Urbino; quanto a Rustigotto, egli non comprese o non diede attenzione alla cosa, poiché già vedeva che in cucina si venivano rosolando i cosciotti (...)". Data la ristrettezza della corte urbinate, sospetta Sardoncini, quella fortunata definizione non dovette rimanere troppo tempo confinata a Palazzo; portata in città dai servitori che avevano assistito alla scena o che ne avevano ascoltato il racconto, valicò rapidamente le mura e si diffuse per tutta la regione, all'inizio solo sotto forma di aneddoto e di prova della prontezza di lingua e della mirabile cortesia della Duchessa d'Urbino.
Presto, tuttavia, la grazia del porco smise di essere quella propria di Rustigotto da Montefeltro (nel frattempo morto a Scheggia, cadendo in un dirupo per sfuggire all'inseguimento di una torma di contadini gelosi) e passò a indicare in modo evidente e sbrigativo la forma mentis e le modalità d'azione di tutti coloro che non potevano certo dirsi classicamente iscritti in quel cerchio d'armonia e perfezione caro a Leonardo; senza tuttavia che questa animalità sia da intendersi in senso troppo dispregiativo. Le Marche, infatti, sono pur sempre quella regione in cui il maiale - che consente alla famiglia contadina di superare il duro e improduttivo inverno - è affettuosamente conosciuto come "El Zalvadore": un uomo di maniere porcine non è perciò in quanto tale destinato alla dannazione; lo si guarderà invece con ironica commiserazione e si prenderà atto della sua insuperabile goffaggine.
Porci sunt, parafrasando Seneca, immo homines; i nostri vecchi certo non conoscevano i classici latini, ma qualcosa di quell'antica sapienza - attraverso la perfezione stessa delle colline e dei borghi - dovette necessariamente giungere fino a loro.

mercoledì 9 novembre 2011

Te fa vede che Cristo s'è morto dal freddo

Voce di ambito probabilmente campagnolo e comunque prodotta da una società ancora saldamente tradizionale, essa esprime in maniera potentemente evocativa lo stupore, che diventa spesso disagio ma non è mai sfornito di quel sarcasmo tipico dei marchigiani (come ebbe a notare Fabio Cusin*), di fronte alla lingua sciolta e alla faccia tosta altrui. Può essere rivolta - per chiarirne l'utilizzo - a un venditore, a un testimone di Geova, a qualche discorso politico captato alla tivù. Non priva di un certo apprezzamento per l'abilità del ciarlatano di turno, segna comunque in modo evidente la distanza tra una certa parlantina e mancanza di scrupoli e la scala di valori del contadino di una volta; giacché è assai verosimile che debba essere stato un agricoltore a pronunciare per la prima volta, in tono sorpreso, questa frase destinata a diventare proverbiale.
L'origine storica dell'espressione, ad ogni modo, si perde nella nebbia di tempi ancora troppo poco studiati: qualcuno, come il Sanbitter (O. SANBITTER, L'iconografia sacra in Italia da Costantino alle figurine Panini, Rimini 1975), ritiene che essa nasca in reazione alla propaganda luterana effettuata nella campagna arceviese da qualche cripto-protestante nella prima metà del '500, anche con l'ausilio di stampe (fatte venire dalla Germania) in cui erano raffigurate immagini del tutto inconciliabili con quelle dipinte sui muri delle pievi cattoliche: "Vara chi, oh!" avrà mormorato il villico alla moglie, accarezzando appena la pagina ruvida e tratteggiata con il tratto sensuale del Nord, "Te fa vede che Cristo s'è morto dal freddo!". E così dicendo, in cuor suo, l'agricoltore aveva già deciso di restare fedele alla propria chiesa natale: per paura e per incomprensione del complesso sermone dell'evangelico, certamente, ma soprattutto per l'istintivo e incoercibile conservatorismo che è una delle caratteristiche più chiare dell'animo marchigiano. Questa, almeno, è l'esegesi del Sanbitter, ben illustrata anche in un grande convegno all'Hotel Gabbiano di Senigallia, giustamente noto per la dotte prolusioni e per il buffet di pesce gestito dagli allievi del locale Alberghiero (gli atti della conferenza, neanche troppo unti, sono consultabili presso la sede dell'Unione Sportiva Vigor Senigallia 1921).
Contro quest'interpretazione filoclericale si erge tuttavia l'auctoritas del Cane (Ermete Cane, già professore all'Alma Mater bolognese, poi impazzito in tarda età e divenuto meccanico di camion e autobus a Soresina, nel Cremonese): costui, nel suo ponderoso Quanto alle vergogne & agli arbitrî del giogo pontificio sulla Marca di Ancona (Paris-Montelupone 1908), propone una genesi tutt'affatto diversa del ricordato modo di dire. A suo modo di vedere, vi è semmai viceversa un dolo da parte della gerarchia cattolica locale, la quale avrebbe intenzionalmente ingannato i marchigiani. In particolare, sostiene il Cane, a fine Ottocento alcuni pretini senza scrupoli, d'accordo con i vescovi delle Marche centrosettentrionali, avrebbero cercato di contrastare la crescente influenza di socialisti e repubblicani sulle masse popolari ricorrendo alla diffamazione e alla calunnia: per l'esattezza, costoro avrebbero battuto le parrocchie e i poderi travestiti da agitatori anticlericali, distribuendo falsi opuscoli di propaganda e copie dell'Avanti! realizzate ad hoc da abili falsari. Soprattutto, denuncia il prof. Cane nella sua opera ancora vibrante di sdegno risorgimentale, questi avrebbero esposto alle famiglie contadine - per provocare odio e rigetto verso gli ideali riformisti - certe idee assurde e inaudite sulla fine di Gesù Cristo e in generale sulle vicende nuovotestamentarie: idee inaccettabili non solo dal punto di vista dogmatico, storico e di buon senso, ma perfino da quello climatico e scientifico, giacché - come è noto a tutti e come non potevano ignorare i progressisti dell'800, nutriti di positivismo e di culto della scienza - in Palestina è ben raro che capiti a qualcuno di morire assiderato.
In anni più vicini e più pronti alla comparazione si è notato che ambiti ugualmente caratterizzati da una cultura contadina e cattolica hanno prodotto una mentalità e dunque modi di dire simili. È stato lo studioso italo-tedesco Ludwig Scattolini-Hohenstaufen a raccogliere nel suo notevolissimo saggio sui costumi bavaresi all'epoca del regime nazista (Lederhosen und Stahlhlem: Bayern bei der Zeit des Nationalsozialismus, Augsburg 2002) la testimonianza di un anziano di Ratisbona sopravvissuto al fronte russo; questi ricorda come, fortemente impressionato da un discorso radiofonico del Ministro della propaganda, avesse confidato a un suo commilitone: "Hast du den Göbbels gehört? Der lässt dich aber sehen, Christus ist vor Kälte gestorben!" (L'he 'nteso a Göbbels? Quello te fa vede che Cristo s'è morto dal freddo!). Più tardi, all'epoca della resa di Paulus a Stalingrado, verrà spontaneo ai bavaresi catturati dai sovietici mettere in relazione quello stesso freddo che avrebbe ucciso Cristo con l'altro, ben più reale, che li attanagliava sui treni diretti verso la prigionia in Siberia o in Kazakistan, quasi a voler suggerire che da parole false e promesse illusorie non potessero sortire che conseguenze disastrose. Sicché Scattolini-Hohenstaufen conclude che, come nelle Marche, anche in Baviera l'espressione contiene in sé incredulità e ammirazione, ma mantiene prima di tutto un fondo di sfiducia e di vero disprezzo. Questo substrato semantico mostra l'incompatibilità di base tra la civiltà della parola libera e del discorso sofistico e quella del lavoro fisico, legato alla terra, alle stagioni e alle sue certezze; una delle quali doveva essere necessariamente che Cristo muore in croce da duemila anni, ogni primavera del Signore. E chi lo nega ne capisce poco di religione e di campi, oppure è un gran trappoló (lemma su cui ritorneremo).


*Nel suo "L'italiano: realtà e illusioni", Roma 1945. Libro che ha svariatissimi pregi, tra i quali l'effettiva esistenza.

mercoledì 2 novembre 2011

(È rriado) Paccaciocchi

Un paccaciocchi, ma meglio sarebbe dire "il" paccaciocchi, giacché la categoria rifiuta l'inclusione in un'anonima massa inetta, è colui che si fa avanti quando si tratta di compiere imprese mirabolanti; o più spesso è colui che, seduto a un tavolo e con le braccia conserte, rivendica di averne realizzate in passato. Per tali meriti, più o meno verificabili, egli è all'istante premiato con la qualifica di paccaciocchi dai presenti, i quali di solito si rallegrano ad alta voce per il suo inaspettato apparire nella compagnia.
Il compianto antropologo Roberto Unti Bastoni, nel suo fondamentale La comparsa del paccaciocchi: noja e vanterie nella provincia marchigiana (Castelleone di Suasa 1982) così definisce la persona in oggetto: "Quell'individuo usualmente maschio, ché alla donna nelle società tradizionali compete la modestia, il quale ad una notevole abilità sia pratica che teorica unisce la ferma volontà di gloriarsene a ogni pié sospinto... Voce squillante, figura generalmente massiccia e squadrata con l'accetta, il paccaciocchi risponde «Presente» alle richieste della società (...)".
Lo stesso Unti Bastoni rievoca la figura di Piero Mancinelli, libero professionista nel settore agro-alimentare e noto viveur delle zone montane del Fabrianese: al suo arrivo sulla piazzetta di Marischio egli era solito raccontare ai compaesani colà radunati le proprie avventure notturne con modelle svedesi incontrate a Gubbio, oppure i propri faraonici guadagni nella borsa del mais; quando poi qualcuno dei suoi compaesani aveva difficoltà nel configurare un apparecchio elettronico, nella compilazione di un modello o nel risolvere uno schema di Bartezzaghi, immancabilmente costui ordinava "Camina, lungheme sto fojo... T'el fo vede io como se fa". Infine, in occasione dei suoi non infrequenti acquisti di macchine di lusso, Mancinelli soleva parcheggiare nella medesima piazza facendo rombare a lungo il motore, vero gioiello d'ingegneria tedesca, finché qualcuno non si avvicinava al mezzo e gli sussurrava con dolcezza "O paccaciocchi, smorcia sta maghina, ché chi ce 'mpesti pure el Dommeneddìo...". Mancinelli, peraltro, morì ancora giovane di ernia fulminante, dopo aver provato a sollevare un sacco da svariati quintali di farina da polenta caduto da un camion, sacco che era stato giudicato inamovibile dal Comune e lasciato perciò sul ciglio della strada: "S'è morto com'è campado, sto paccaciocchi", ebbero dunque a dire i vecchi dopo aver reso omaggio alla salma.
Per quanto riguarda l'origine del lemma, il Großkreutz (Ö. GROßKREUTZ, Centralità della sega nel Medioevo europeo, Koblenz 1913) ne individua la genesi nella rinascita post 1348, quando le Marche ricoperte da boschi e brughiere dovettero essere bonificate da coloni slavi o lombardi; in questo milieu storico si situa la figura mitica di Biagiotto, taglialegna nella zona di Mondavio, il quale avrebbe abbattuto boschi interi di querce e faggi e ne avrebbe fatto fascine finissime. Per tale abilità, che non arretrava di fronte ai nodi più aspri e ai più antichi e intricati grovigli di piante, nonché per la potenza nello spaccare il legno fino alle dimensioni desiderate, egli divenne presto il Paccaciocchi per eccellenza; tanto che i taglialegna del Duca di Urbino, impegnati magari in un lungo lavoro che pareva non avere fine, si sentivano riavere quando si diffondeva la voce che si stava unendo a loro anche Biagiotto: "Ecco Paccaciocchi... È arrivato Paccaciocchi!", e giù con rinnovata lena e splendido ottimismo... Oh gran bontà de' cavallieri antiqui! La prova storica dell'esistenza di Biagiotto, tuttavia, è purtroppo andata perduta una sera al "Gorghetto" di Frontone (PU), quando il Großkreutz ubriaco utilizzò carte d'epoca per pulirsi la bocca sporca di crescia e salumi: dimostrazione che anche i tedeschi, sia pur raramente, commettono degli errori di approssimazione.
Altri individua l'origine del paccaciocchi in un certo Jerzy Kaczotky, sottotenente della Legione Polacca sotto Napoleone e factotum del generale Boghossian, all'epoca governatore militare dei dipartimenti del Metauro e Musone; questi, soprannominato dai commilitoni Pa' Kaczotky per la sua lunga barba bianca, avrebbe plasmato con il suo notevole attivismo la figura del paccaciocchi. Si trova testimonianza di questa ipotesi, d'altronde minoritaria, nei deliri di un ubriaco penetrato a forza nel campanile di Montecarotto nel 1993, recentemente ristampati da Rubbettino (AA. VV., Arcamadonna non troo l'uscio de casa, Soveria Mannelli 2007).
Infine, vanno ricordate due varianti di pari senso e utilizzo: ci riferiamo cioè a "Tajavento" e "Sbregamadó". Se il primo lemma si ricollega alla dimensione surreale e onirica tanto cara ai marchigiani (si veda l'opus leopardiano, in ispecie lo Zibaldone), il secondo ha in sé la modernità civica e poi industriale; si è voluto anzi proporre un parallelismo tra i mitologici "rompimattoni" marchigiani e il "brickbreaker" spesso invocato nella cultura popolare dell'Inghilterra del Nord, primo nucleo dell'industrializzazione, nonché tipico esempio di edilizia a mattoni rossi. "Well, here comes the brickbreaker...", mormorerà fra sé l'allenatore delle riserve dello Sheffield Wedsneday, dopo che il numero 7 gli ha assicurato di poter dribblare senza problemi qualsiasi laterale mancino e di saper crossare poi dal fondo con rara competenza; in seguito, avendo assodato in partita la totale infondatezza di quelle parole, il burbero coach si chiederà quando la squadra biancoblù avrà di nuovo giocatori all'altezza del proprio blasone... Ma questo esula dal nostro tema, credo; e non vi annoio oltre.

Presentazione

A che serve questo blog? A niente. Che scopi si propone? Uno, nobilissimo: quello di fissare attraverso la scrittura i modi di dire e la mentalità, che traspare attraverso essi, di una comunità e forse di una civiltà che vanno rapidamente sparendo.
Si tratta della mia comunità di origine, quella marchigiana o centro-marchigiana; più precisamente, le parole e i detti che appariranno su questa pagina appartengono all'area arceviese, della Valle del Misa e della provincia di Ancona e di parte di quella di Pesaro e Urbino. Credo tuttavia che essi possano essere giudicati diffusi e rappresentativi per quanto riguarda la regione Marche nel suo complesso.
Scrivo di cose vecchie, ristrette e in sparizione perché penso che sia un peccato che esse vadano perdute, giacché dicono di noi - anche di me - cose che sono ancora vere e ancora interessanti; può essere tuttavia che sbagli. Devo qualcosa, per lo spunto scherzoso da cui voglio partire, a una vecchia rubrica di Borzacchini sul Vernacoliere, e lo dichiaro con piacere.
Ovviamente, non essendo un linguista, scriverò di lingua in maniera assolutamente imprecisa e priva di ogni scientificità; spero comunque che possiate trovarlo divertente e utile. La cadenza di pubblicazione, visto che perdo già abbastanza tempo in altre scemate, sarà grossomodo settimanale. Per il resto, mi auguro che questo blog riesca a incuriosirvi e resto comunque a vostra totale disposizione.