mercoledì 16 novembre 2011

La grazia del porco

Modo di dire compiutamente regionale per diffusione e per valenza semantica e ideale, esso esprime con una semplice quanto evocativa giustapposizione il doppio volto della civiltà marchigiana: contadina, senz'altro, ma anche classica e cortese quant'altre mai in Italia e in Europa Occidentale. Accusare qualcuno di possedere appunto la grazia del porco, scrive non a caso Guido Piovene nelle sue Note a margine del viaggio in Italia vergate su certi tovagliolacci di trattoria, Milano-Mondolfo 1959, equivale a "tacciare qualcuno di essere carente di quell'armonia, di quella compiutezza, di quell'educazione al bello e al classico che è il tratto caratteristico del paesaggio fisico e storico delle Marche". E aggiunge: "Il possesso di una grazia suina - si ricordi sempre che la grazia è un dono di Dio all'uomo creato a Sua somiglianza - distingue perciò dall'essere umano a tutti gli effetti, dal cittadino della Città Ideale, colui che invece ne è solo un pallido e inefficiente surrogato (...)".
"Vara quel ch'hai fatto, per dindo, ce voi bada'?", dirà per esempio la moglie al marito che ha appena urtato un soprammobile, gettandolo in pezzi sul pavimento. "Bada a sta' zitta: que, ho fatto apposta, te pare? Me s'è voltigado...", ribatterà l'uomo; "Scì, ma a te te se voltiga nigo', cj hai la grazia del porco". Più precisamente ancora, la grazia del porco è quella che contraddistingue chi si accosta a un'arte liberale - la scrittura, la cucina, la conversazione, il galateo - ma lo fa con modi rozzi e porcini e con risultati coerenti a tale impostazione. "C'era bisogno de discorre nte quela maniera? Adè vojo vede quando cj archiama lì casa... Ma tanto te cj'he la grazia del porco, a dittelo è como da' fiato a la bocca": questo invece il lamento della donna finalmente ammessa a una dimora prestigiosa e ancora sconvolta dall'ingenua franchezza del compagno, che di fronte alle imprecisioni e alla trombonaggine del padrone di casa non è riuscito a trattenersi dal metterlo a posto con spietata e francamente eccessiva pignoleria. Si tratta perciò di un modo d'essere a tutto tondo, che comprende e unifica varie grossolanità e goffaggini, dal piano tutto fisico della coordinazione a quello ben più elevato del tatto e dell'empatia.
Non è dato sapere con certezza da dove nasca l'espressione; in una fortunata monografia, il Sardoncini (Federigo Sardoncini, decano dei filologi del Regno nonché campione d'Italia con la Pro Vercelli) propone un'ipotesi molto seducente: a suo avviso, la locuzione fu cucita addosso a Messer Rustigotto da Montefeltro, biscugino cantianese del duca Guidobaldo; questi - Rustigotto, intendiamo - si distingueva per il suo fare dozzinale, che stonava nella perfezione di quella piccola e inimitata corte rinascimentale. Si trattava purtuttavia di un parente del duca, sicché anche a lui erano dovute lodi e attenzioni; per questo, stando al Sardoncini (cfr. F. SARDONCINI, L'ineducazione e la goffaggine nell'Umanesimo marchigiano, Liverpool 1922; ristampato in ed. anastatica, Moie di Maiolati 1998), monsignor Baldessar Castiglione dedicò a Rustigotto un libro intero - il quinto, comunemente ritenuto perduto - del suo notissimo manuale del Cortegiano. Sardoncini allega anzi brani originali, da lui ritrovati presso un'umile affittacamere di San Lorenzo in Campo una sera che si doveva mangiare il crostone di formaggio alla griglia ma non si trovava la carta per dar fuoco alle fascine.
Peraltro l'albergatrice, una certa Maria Santolini, sedusse quella sera stessa l'eminente studioso e divenne in seguito la madre di Turno, l'unico figlio maschio del luminare; ma queste sono questioni non connesse alla ricerca ed è invece molto meglio passare ad analizzare le pagine del Cortegiano dedicate a Rustigotto: "Essendo dunque comparso al desco ducale il magnifico messere Rustigotto, di colorito pavonazzo per le corse che elli andava facendo nei pressi di Urbino dietro alle donzelle e alle contadine, volendo elli pigliarle per la gonnella e rovesciarle sull'erba, senza riguardo alcuno che poggiassero la schiena in terra o invece se ne stessero con il deretano, come usa dire, pizzuto, sì da costringerlo ad accostarsi ad esse more animalium, detto Rustigotto chiese cosa fosse da porre in tavola, dacché tutto quel correre che aveva fatto quel giorno sin verso Fermignano e Casteldurante gli aveva pizzicato l'appetito; dopo che gli fu risposto che si sarebbe mangiato porco finissimo di Carpegna presentato in tutte le salse, egli ne gioì grandemente e, sfregandosi con fragore le manone, che aveva titaniche e terrose, andava ripetendo che quel porco che allevano a Carpegna, in luoghi forse non ameni e ubertosi come vi sono in altre contrade d'Italia, ma certo ricchi di ghianda e d'altro cibo che al maiale aggrada, era il suo nutrimento prediletto e che ne mangiava sempre con vero compiacimento; al che la duchessa Elisabetta replicò con voce carezzevole e affettuosa che tutto quel maiale che soleva mangiare aveva preso dimora nell'anima stessa e nei sentimenti di Rustigotto e che andava quasi formando le sue azioni; però che, disse sorridendo Elisabetta, ben si poteva dire che l'ammirevole leggiadria con cui egli si muoveva per le colline e per i prati poteva più giustamente chiamarsi grazia del porco, perché era da quella creatura di Dio che Rustigotto aveva dedotto i propri squisiti modi. Elisabetta disse queste ultime parole con tono pacato ma ben udibile, e parvero a tutti coloro che vi erano attorno frasi ben scelte e ben formate, che presto passarono in proverbio, arricchendo la reputazione già splendente e santa della Duchessa d'Urbino; quanto a Rustigotto, egli non comprese o non diede attenzione alla cosa, poiché già vedeva che in cucina si venivano rosolando i cosciotti (...)". Data la ristrettezza della corte urbinate, sospetta Sardoncini, quella fortunata definizione non dovette rimanere troppo tempo confinata a Palazzo; portata in città dai servitori che avevano assistito alla scena o che ne avevano ascoltato il racconto, valicò rapidamente le mura e si diffuse per tutta la regione, all'inizio solo sotto forma di aneddoto e di prova della prontezza di lingua e della mirabile cortesia della Duchessa d'Urbino.
Presto, tuttavia, la grazia del porco smise di essere quella propria di Rustigotto da Montefeltro (nel frattempo morto a Scheggia, cadendo in un dirupo per sfuggire all'inseguimento di una torma di contadini gelosi) e passò a indicare in modo evidente e sbrigativo la forma mentis e le modalità d'azione di tutti coloro che non potevano certo dirsi classicamente iscritti in quel cerchio d'armonia e perfezione caro a Leonardo; senza tuttavia che questa animalità sia da intendersi in senso troppo dispregiativo. Le Marche, infatti, sono pur sempre quella regione in cui il maiale - che consente alla famiglia contadina di superare il duro e improduttivo inverno - è affettuosamente conosciuto come "El Zalvadore": un uomo di maniere porcine non è perciò in quanto tale destinato alla dannazione; lo si guarderà invece con ironica commiserazione e si prenderà atto della sua insuperabile goffaggine.
Porci sunt, parafrasando Seneca, immo homines; i nostri vecchi certo non conoscevano i classici latini, ma qualcosa di quell'antica sapienza - attraverso la perfezione stessa delle colline e dei borghi - dovette necessariamente giungere fino a loro.

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