mercoledì 9 novembre 2011

Te fa vede che Cristo s'è morto dal freddo

Voce di ambito probabilmente campagnolo e comunque prodotta da una società ancora saldamente tradizionale, essa esprime in maniera potentemente evocativa lo stupore, che diventa spesso disagio ma non è mai sfornito di quel sarcasmo tipico dei marchigiani (come ebbe a notare Fabio Cusin*), di fronte alla lingua sciolta e alla faccia tosta altrui. Può essere rivolta - per chiarirne l'utilizzo - a un venditore, a un testimone di Geova, a qualche discorso politico captato alla tivù. Non priva di un certo apprezzamento per l'abilità del ciarlatano di turno, segna comunque in modo evidente la distanza tra una certa parlantina e mancanza di scrupoli e la scala di valori del contadino di una volta; giacché è assai verosimile che debba essere stato un agricoltore a pronunciare per la prima volta, in tono sorpreso, questa frase destinata a diventare proverbiale.
L'origine storica dell'espressione, ad ogni modo, si perde nella nebbia di tempi ancora troppo poco studiati: qualcuno, come il Sanbitter (O. SANBITTER, L'iconografia sacra in Italia da Costantino alle figurine Panini, Rimini 1975), ritiene che essa nasca in reazione alla propaganda luterana effettuata nella campagna arceviese da qualche cripto-protestante nella prima metà del '500, anche con l'ausilio di stampe (fatte venire dalla Germania) in cui erano raffigurate immagini del tutto inconciliabili con quelle dipinte sui muri delle pievi cattoliche: "Vara chi, oh!" avrà mormorato il villico alla moglie, accarezzando appena la pagina ruvida e tratteggiata con il tratto sensuale del Nord, "Te fa vede che Cristo s'è morto dal freddo!". E così dicendo, in cuor suo, l'agricoltore aveva già deciso di restare fedele alla propria chiesa natale: per paura e per incomprensione del complesso sermone dell'evangelico, certamente, ma soprattutto per l'istintivo e incoercibile conservatorismo che è una delle caratteristiche più chiare dell'animo marchigiano. Questa, almeno, è l'esegesi del Sanbitter, ben illustrata anche in un grande convegno all'Hotel Gabbiano di Senigallia, giustamente noto per la dotte prolusioni e per il buffet di pesce gestito dagli allievi del locale Alberghiero (gli atti della conferenza, neanche troppo unti, sono consultabili presso la sede dell'Unione Sportiva Vigor Senigallia 1921).
Contro quest'interpretazione filoclericale si erge tuttavia l'auctoritas del Cane (Ermete Cane, già professore all'Alma Mater bolognese, poi impazzito in tarda età e divenuto meccanico di camion e autobus a Soresina, nel Cremonese): costui, nel suo ponderoso Quanto alle vergogne & agli arbitrî del giogo pontificio sulla Marca di Ancona (Paris-Montelupone 1908), propone una genesi tutt'affatto diversa del ricordato modo di dire. A suo modo di vedere, vi è semmai viceversa un dolo da parte della gerarchia cattolica locale, la quale avrebbe intenzionalmente ingannato i marchigiani. In particolare, sostiene il Cane, a fine Ottocento alcuni pretini senza scrupoli, d'accordo con i vescovi delle Marche centrosettentrionali, avrebbero cercato di contrastare la crescente influenza di socialisti e repubblicani sulle masse popolari ricorrendo alla diffamazione e alla calunnia: per l'esattezza, costoro avrebbero battuto le parrocchie e i poderi travestiti da agitatori anticlericali, distribuendo falsi opuscoli di propaganda e copie dell'Avanti! realizzate ad hoc da abili falsari. Soprattutto, denuncia il prof. Cane nella sua opera ancora vibrante di sdegno risorgimentale, questi avrebbero esposto alle famiglie contadine - per provocare odio e rigetto verso gli ideali riformisti - certe idee assurde e inaudite sulla fine di Gesù Cristo e in generale sulle vicende nuovotestamentarie: idee inaccettabili non solo dal punto di vista dogmatico, storico e di buon senso, ma perfino da quello climatico e scientifico, giacché - come è noto a tutti e come non potevano ignorare i progressisti dell'800, nutriti di positivismo e di culto della scienza - in Palestina è ben raro che capiti a qualcuno di morire assiderato.
In anni più vicini e più pronti alla comparazione si è notato che ambiti ugualmente caratterizzati da una cultura contadina e cattolica hanno prodotto una mentalità e dunque modi di dire simili. È stato lo studioso italo-tedesco Ludwig Scattolini-Hohenstaufen a raccogliere nel suo notevolissimo saggio sui costumi bavaresi all'epoca del regime nazista (Lederhosen und Stahlhlem: Bayern bei der Zeit des Nationalsozialismus, Augsburg 2002) la testimonianza di un anziano di Ratisbona sopravvissuto al fronte russo; questi ricorda come, fortemente impressionato da un discorso radiofonico del Ministro della propaganda, avesse confidato a un suo commilitone: "Hast du den Göbbels gehört? Der lässt dich aber sehen, Christus ist vor Kälte gestorben!" (L'he 'nteso a Göbbels? Quello te fa vede che Cristo s'è morto dal freddo!). Più tardi, all'epoca della resa di Paulus a Stalingrado, verrà spontaneo ai bavaresi catturati dai sovietici mettere in relazione quello stesso freddo che avrebbe ucciso Cristo con l'altro, ben più reale, che li attanagliava sui treni diretti verso la prigionia in Siberia o in Kazakistan, quasi a voler suggerire che da parole false e promesse illusorie non potessero sortire che conseguenze disastrose. Sicché Scattolini-Hohenstaufen conclude che, come nelle Marche, anche in Baviera l'espressione contiene in sé incredulità e ammirazione, ma mantiene prima di tutto un fondo di sfiducia e di vero disprezzo. Questo substrato semantico mostra l'incompatibilità di base tra la civiltà della parola libera e del discorso sofistico e quella del lavoro fisico, legato alla terra, alle stagioni e alle sue certezze; una delle quali doveva essere necessariamente che Cristo muore in croce da duemila anni, ogni primavera del Signore. E chi lo nega ne capisce poco di religione e di campi, oppure è un gran trappoló (lemma su cui ritorneremo).


*Nel suo "L'italiano: realtà e illusioni", Roma 1945. Libro che ha svariatissimi pregi, tra i quali l'effettiva esistenza.

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