martedì 11 dicembre 2012

Zuppo de terra

C'è un tipo di persona davanti alla quale l'osservatore educato, cittadino, magari cosmopolita non può che ritirarsi inorridito, per quanto ben disposto voglia essere quest'ultimo: tale persona rozza, triviale, penetrata e impregnata in ogni fibra del proprio essere di ignoranza atavica e villania irrecuperabile, è per l'appunto lo "zuppo de terra".
Tale zuppaggine connatura e definisce il malcapitato, che d'altronde non avverte la propria sfortuna, in ogni senso: essa lo rende disattento - per dir poco! - ai dettami del vivere civile, e in più incapace di rapportarsi a tutte le invenzioni e le trovate che sono il frutto dell'intelligenza umana, le quali rendono più facile e degna di essere vissuta la nostra esistenza su questa terra. Dirà per esempio un tale, sbuffando e bestemmiando piano, di fronte a un qualche attrezzo tecnologico che pare resistergli e il cui funzionamento gli sfugge: "Que diaolo dovrìa rappresenta' sto ciaffo? E miga fa na sega, tocca portallo a commeda'*!". "Ma que voi commeda', bada a camina'...", ribatterà un amico o un conoscente, con tono appena sussiegoso, apprestandosi a risolvere il facilissimo intoppo, "Passeme sto fregno, te fo vede io, o zuppo de terra. To', ce volea 'n bel po'...".
Ma lo zuppo di terra, per sua natura, non osserva e non apprende; egli si limita a recitare nel teatro della vita la propria parte meschina.
A proposito di teatro, può capitare anche che un amante dell'alta cultura esca in tarda serata da un'opera o da un concerto, e incontri sulla via alcuni giovani - più o meno avvinazzati - che blaterano qualcosa a voce elevata o, peggio ancora, giocano con il proprio cellulare e impongono all'aere circostante l'ascolto di una qualche melodia della dance marocchina. "Ma te vara sti zuppi de terra! E i fa sgappa' fora da 'n teadro... Sarìa da taccalli su** tutti!". "Scì, ma 'n te ne pia'...", dirà la moglie. "E miga me ce stizzo***! Io fo pel be' de lora...". Così dicendo, cercando di soffocare il nervoso e di ripensare a Bach, l'uomo si dirigerà alfine verso casa, nel confortante silenzio notturno.
Ma che origine ha lo zuppo di terra (inteso come espressione)? Le ipotesi sono varie. La prima e forse più diffusa è quella "ecclesiastica", teorizzata a suo tempo dall'abate Pompetta (Pio Calamaro Pompetta, nato a Montegranaro nel 1745; meglio noto come segretario particolare di vari pontifici, nonché inventore dei guanti senza dita e del cappello da croupier). Questi, di umile origine, sostiene sdegnato nel suo Mala educatio gentium marchianorum, sive Marchae merda iuvenes (Subiaco 1787): "Pare all'umile giudizio di me medesimo, confortato in ciò dall'opinione di grandi sapienti et eruditi con i quali ebbi a favellare sul tema, che la trista e soverchia fierezza de' nobili e cittadini marchiani dovette chiamare «zuppi di terra» i villici, i ciabattini, li stracciaroli et altri umili figli del Signore, con esso nome rimandando all'Antico Testamento et in ispecie alla Genesi ove si dice che Dio Padre fece l'uomo dall'argilla; ritenendosi invece a converso i nobili et i ricchi discendenti non di quell'uomo di argilla, e bene sì del rosso Adamo. Dimenticando guari a bella posta i secondi che anche nell'uomo di argilla fu posto il soffio divino e che questi, lo zuppo di terra, è uomo compagno ad Adamo et egualmente a lui valido e figlio dinanzi al Signore... Certo in questo inganno essi ebbero d'avvantaggio la stolida ignoranza, purtroppo sì diffusa nelle campagne marchiane, pronte sempre allo sputo in terra et alla bestemmia ma poco disposte allo studio della dottrina...".
Questa ipotesi, in epoca di cattolicesimo sociale, fu poi fatta propria da Rezio Riezio e Don Fabio Camalli, storici maceratesi che videro nell'abbruttimento delle masse da parte delle classi dominanti la radice di tante fragilità regionali e anche della possibilità di penetrazione delle perniciose idee socialiste (cfr. R. RIEZIO, Sor padro', alme' non me toccade la sposa!, in "L'abbise. Quaderni di storia e cultura marchigiana", 10/XXII, Macerata 1976. Per Camalli purtroppo non c'è bibliografia disponibile perché la sua perpetua, Zelmira, era usa adoperarla per attizzare il fuoco).
La scuola materialista, più vicina alle posizioni politiche progressiste e socialcomuniste, ha voluto invece vedere in quello "zuppo" una nota tragicamente reale e alimentare. In particolare essa ha fatto proprie le idee dello storico tedesco Guido Weitenpisser, formatosi a Heidelberg ma poi rimasto una ventina d'anni nascosto a Monte San Vito (AN), in seguito a una sordida storia di frequentazioni con studentesse e gravidanze negate. A margine del suo impiego da rappresentante della Manifattura Tabacchi di Chiaravalle, Weitenpisser portò avanti i propri studi storico-linguistici; esaminando certe carte ecclesiastiche, soprattutto, egli lesse come "Numero grande di contadini e poveri passarono all’altra vita, onde non coltivate le campagne fu tanto peggio nel 1588 e 1589 e 90 e 91: e però la poveraglia morì senza numero non solo, ma ancora non poche persone comode". Questo lo portò a ritenere che un grosso numero di contadini, in quel periodo, saziasse la propria tremenda fame solo con minestroni di radici di scarso potere nutritivo, e in seguito con veri e propri infusi di terra e erba, prima di trascinarsi in città per ricercare qualche elemosina o un qualsiasi lavoro dai mercanti italiani e orientali o dal clero. Agli occhi dei relativamente fortunati abitanti della città il muso emaciato e terroso dei campagnoli doveva apparire indimenticabile; ancora anni e decenni dopo la fine dell'emergenza, si terrorizzavano i bambini dicendo loro che, se non avessero mostrato rispetto per i genitori, a cena avrebbero avuto zuppa di terra come i contadini durante la carestia. Dalla zuppa di terra allo zuppo di terra, e dunque al povero villico ridotto in condizioni morali e materiali degradanti, il passo è evidentemente breve. Si veda G. WEITENPISSER, Essen und Kotzen in Zentralmarken, 1550-1650, Cozze di Monte San Vito-Uerdingen 1965, poi parzialmente tradotto e popolarizzato da A. LIMORTACCI, Ricchi di merda. Appunti per una storia proletaria del mondo e dei cani, Cremona 1973.
L'ultima ipotesi, minoritaria, ha a che fare con la ben nota immigrazione degli slavi nelle Marche all'epoca delle invasioni turche nei Balcani e comunque quando l'Italia viveva la propria rinascita rinascimentale dopo la crisi del Trecento. Questi immigrati, anche quando si trovavano costretti a esercitare lavori umili con retribuzioni certo non eccezionali, mostravano spesso un orgoglio peculiare, motivandolo con la propria passata condizione nella loro terra d'origine: certi si dicevano cioè condottieri o soldati particolarmente abili, altri artisti o artigiani di pregio, alcuni rivendicavano perfino uno status di nobili o di capi di una regione ("župa", in lingua serbo-croata).
Il popolino, tuttavia, non poteva ignorare la contraddizione fra l'arroganza degli župani e la bassezza delle loro esistenze; questo portò sovente a episodi di rozza e tagliente ironia nei loro confronti e alla coniazione del nomignolo župani de terra per quelli che erano impegnati in agricoltura. Nel corso delle generazioni si perse il senso e la parola stessa di župan, che si trasformò nel più simile dei termini neolatini, d'altronde singolarmente pregnante in quella espressione. Tale teoria fu illustrata per la prima volta a Civitanova Marche nel 1981 da Dragan Cvitanić, decano dei linguisti croati, durante il convegno "Adriatico, mare di mistificatori: per una nuova etica della truffa e del raggiro levantino". La conferenza, interessante e assai seguita in sé, è particolarmente ricordata perché negli stessi giorni si giocò anche l'amichevole Hajduk Spalato-Sambenedettese, conclusasi quasi senza incidenti di rilievo e in ogni caso all'insegna della sportività.
Gli atti del convegno, per chi volesse approfondire le tesi di Cvitanić, sono anzi disponibili in quasi tutti i baretti in cui si riuniscono gli ultrà della Samba.


* (ar)commeda': riparare, mettere a posto.
** tacca' su: impiccare.
*** stizzasse: arrabbiarsi.

mercoledì 7 novembre 2012

Come l'osso al ca'


Espressione di significato leggermente bivalente, ma riconducibile comunque a uno stesso ambito, «como [o "come"] l'osso al ca'» indica da un lato l'appropriatezza di un'attribuzione, dall'altro la necessità di completare in una determinata maniera un quadro che manchi di un elemento o che appaia in qualche modo errata.
"Ce dice ste scarpe cul vestito?", domanda ad esempio la donna marchigiana della buona società al marito, qualche minuto prima di recarsi a teatro (sono già in ritardo e l'uomo sbuffa). "Ce chioppa*", risponderà l'uomo, senza più nascondere la propria insofferenza, "come l'osso al ca'...". La donna, ovviamente, per nulla rassicurata da un giudizio tanto superficiale, esiterà di nuovo davanti allo specchio, vagamente maledicendo il giorno in cui ha sposato quel vagabondo; questo, tuttavia, non è fatto peculiarmente marchigiano ed esula dunque dalla nostra ricerca.
Molto spesso la formula è introdotta, per motivi di rima ed armonia, dalla frasetta "Ce sta"; poniamo il caso di due amici: il primo, che ha da poco ristrutturato una casetta, invita l'altro a bere una bottiglia nell'ambiente ancora spoglio. "Chi me sa ce 'ojo fa' lo studio", indicherà quindi, "Scinnò 'n ce fo gnè, ce lasso du poltrone e 'n giradischi e ce veno a sciora'**". "Ce sta", commenterà secco l'altro, già in preda ai fumi dell'alcool (ha colpevolmente dimenticato di pranzare); per poi completare la frase, dopo qualche secondo di pesca infruttuosa nella memoria: "...Come l'osso al ca'!".
Sembra naturale e non ha bisogno di grandi spiegazioni l'accostamento fra l'ovvia affinità tra cane e osso, da un lato, e una situazione, un paragone, un'attribuzione ben riuscita o ben pensata. Il quesito, invece, riguarda tempi e modi della nascita o dell'arrivo della formula in seno alla comunità marchigiana; quando e come, cioè, i nostri antenati hanno cominciato a utilizzare questa frase fatta che a noi oggi pare tanto naturale e istintiva.
Taluni, sulla scorta della grande autorità del Rubamazzo (Edgardo Sebastopoli Rubamazzo, latinista di enorme fama a metà dell'Ottocento; poi luogotenente del brigante Crocco, infine di nuovo latinista dopo i necessari chiarimenti con la giustizia), hanno avvalorato l'origine antica e in particolare latina della formuletta.
Essa doveva far parte di un nutrito gruppo di sententiae pensate per l'educazione dell'infanzia e della gioventù, passate pian piano in proverbio e divenute saggezza popolare e non più generazione. L'originale utilizzo pedagogico sarebbe testimoniato dalla struttura in rima della frase, che all'epoca doveva suonare: "Hic est mos/ tamquam cani os" (così si fa/ come l'osso al ca'). La frasettina serviva cioè ad ammaestrare i bambini e a sottolinearne i comportamenti corretti; il passaggio all'ambito degli adulti, magari mediato prima da un atteggiamento scherzoso, poi perdutosi col tempo dev'essere parso naturale. Così almeno sostiene il citato Rubamazzo nelle sue Divagazioni sulla lingua latina a margine di un bivacco di legittimisti (Tunisi 1864), volume a suo tempo proibito in Italia per via di una certa propaganda filoborbonica che lo pervade.
Un allievo del Rubamazzo, Ettore Puzza, centromediano del Genoa Cricket and Football Club e latinista almeno pari al maestro, volle precisare l'ipotesi del Rubamazzo. Secondo questa variante, la formuletta avrebbe sì radici latine, ma queste non affonderebbero nella classicità, bensì nel latino medievale; secondo Puzza, infatti, sarebbe stato un monaco di Fonte Avellana a vergare nel dodicesimo secolo una serie di commentari e di brevi note che, a partire dalla dottrina allora in voga del Bellum Iustum, tratteggiavano l'Homo Iustus, la Mulier Iusta, la Domus Iusta, ecc., insomma trattavano tutti gli ambiti della vita domestica e dell'esperienza umana. Fra gli altri manualetti di comportamento si ricorda anche quello dedicato al Canis Iustus, il quale avrebbe meritato l'Os Iustum. Questi insegnamenti sarebbero stati compresi in maniera solo parziale e semplificata dai contadini e dagli artigiani dei dintorni, e appunto da una corruzione della dottrina sarebbe nato in seguito il "Cani os", mutatosi poi in volgare nell'osso al ca'. Cfr. E. PUZZA, Ma allora non avete capito un cazzo. Il Medioevo frainteso, Sant'Ippolito 1900.
Assai diversa e rivoluzionaria è invece l'interpretazione di Gianni Sgnaolo, storico del movimento operaio, filosofo ed esteta, meglio noto per una lunga serie di conquiste femminili nel jet-set (egli utilizza la vecchia e collaudata tattica della logorrea ipnotica; dopo sei-otto ore di chiacchiere pesanti, ma in realtà inconsistenti e prive di concetti, la vittima è incapace di pensiero razionale e pronta ad accettare la corte del barbuto viveur). Secondo Sgnaolo, il modo di dire è recente, per la precisione ottocentesco; esso sarebbe stato messo in voga da certi liberali senigalliesi di ritorno dall'Ungheria, dove avevano combattuto di fianco a Kossuth. Nei decenni successivi sarebbe stato poi fatto proprio dal nascente movimento operaio della zona. L'osso cui si fa riferimento, stando a questa lettura, non sono altro che le reliquie dei santi portate in processione per le città marchigiane ancora impregnate di spirito papalino. Gli anticlericali della zona erano dunque soliti presenziare alle processioni e ad altre occasioni religiose e, facendo mostra di parlare d'altro, commentare ad alta voce "Ce sta... come l'osso al ca'!", con i menti rivolti ai venerabili ossicini In un paio di casi, anzi, il confronto era degenerato in rissa aperta, con il tentativo da parte delle frange estreme di rubare e profanare le reliquie. Si veda al proposito AA. VV., Risse, bambini smarriti e furti di porchetta: le feste del popolo nelle Marche postunitarie, Montegranaro 1976 (con il contributo dell'associazione produttori di tomaie). Per le tesi dello Sgnaolo, invece, secondo cui il passaggio in proverbio di quella formula radicale avviene nel momento della pacificazione post-bellica e dell'articolo 7 della Costituzione, si legga Preti di merda: la maturazione del sentimento politico fra Valmisa e Vallesina, in "Quaderni storico-estetici proletari", 2/XIII, Passo Ripe 1989.
Infine, l'ultima interpretazione, più fantasiosa, chiama in causa un certo Giovanni Coloccini, nato nell'Ottocento a San Paolo di Jesi. Costui, uomo inquieto, avrebbe fatto svariatissimi mestieri in giro per l'Europa e militato sotto diverse bandiere, finché, sul finire del secolo, non si sarebbe trovato in Egitto al seguito del noto archeologo prussiano Heinz Von Kliechingen-Paccasassi. Qui avrebbe partecipato a una sfrenata corsa all'antichità egizia, con la scoperta di diverse tombe e in particolare della magnifica mummia del toro Apis, accompagnata da quella del custode Giampiero. Il buon Coloccini, tuttavia, non avrebbe mai colto in profondità l'essenza della civiltà egizia, che pure lo affascinava; e, rientrato in patria, i suoi tentativi di spiegarne la grandezza ad amici e vicini di casa non sarebbero giunti a buon fine, anche per le carenze retoriche dello stesso Coloccini.
L'unica cosa che che filtrava dai suoi discorsi sconnessi, infatti, era la contiguità fra morte, cadaveri e Ka (qualsiasi cosa fosse); pareva anzi che fra ossa dei morti e Ka ci fosse una relazione inscindibile, da cui si sviluppò in paese e nella vicina Staffolo la costumanza di inserire nella chiosa dei discorsi "come l'osso al Ka". In seguito, si perse la memoria di Coloccini e dei suoi viaggi; ma il suo modo di dire, pur frainteso, vive e prospera.
Interrogato su questa apparentemente implausibile ipotesi, pare che Theodor Sehrfickbar, decano dei linguisti tedeschi, abbia risposto: "Ich sehe einen Bund... Wie den Knochen dem Hund" (ci vedo un legame... Come l'osso al cane). Oppure anche questa è un'invenzione recente o una trovata simpatica (cfr. H. BUCHWALD, Studiosi germanici al Carnevale di Fano, o dello zucchero filato sulla Tavola Peutingeriana, ed. it., San Costanzo 1999).


* Lett. "scoppia"; in gergo, vale "ci sta a pennello".
** Sciora' significa in origine uscire, spandersi, allargarsi; è inoltre tipicamente usato per lo spurgare delle olive sotto sale o per la simile necessità degli ubriachi di mettersi all'aria fredda per riprendersi. In questo caso significa "rilassarsi".

lunedì 18 giugno 2012

'Na botta ndu che piscia

Espressione abbastanza diffusa nella provincia anconetana, 'na botta ndu che piscia tradisce - per la sua materialità brutale - la probabile provenienza jesina; essa riflette infatti in modo chiaro la mentalità e lo stile propri dell'operosa città che ha dato i natali a Federico II.
Lo spirito jesino, non in contrapposizione d'altra parte a quello prevalente nella regione, è in effetti popolare e imprenditoriale assieme. La progettualità anche ambiziosa si accompagna perciò senza problemi a una indubbia schiettezza, che diviene a volte rozza; ma mai squallida né tantomeno untuosa. Nel caso in esame, ci si riferisce con la formula - che è dunque esclusivamente maschile - all'avvenenza e alla desiderabilità di una donna. "Ce sae gido, dopo, a la festa de Claudia?", chiederà per esempio un tale al suo compagnone. "Scì, ce so' passado un menudo, verso tardi...". "A lia l'he ista? 'N te pare secca rrustida*?". Mbè, via, siguro 'n ce fai le salcicce... Cumunque te dirò, io je la darìa na botta ndu che piscia. Via, adè na olta je domando el nummero e vedemo sci se pole fa' qualco'...".
L'espressione ha a volte, ma non necessariamente, una certa valenza concessiva, quasi che la botta in questione fosse octroyée con grande liberalità dal maschio alla femmina in oggetto. "Mmh", mormorerà appena il ragazzo in spiaggia, seguendo con lo sguardo la giovane che gli viene indicata da un amico, "Nnè che sii tutta sta cocchia**, prò na botta ndu che piscia...".
Lo stile materialistico e intrinsecamente produttivo dell'espressione (che alcuni, vedi il Budre***. hanno definito addirittura "protocapitalistica") ha fatto pensare a una sua genesi nell'ambito artigianale che costituiva buona parte del tessuto economica delle città medievali e moderne e che tutt'ora caratterizza la regione adriatica. In particolare, la scuola critica finlandese, guidata dal Kuulo (Paavo Kuulo, di madre monteluponese; a lungo assessore alla cultura della provincia di Helsinki, propose un gemellaggio fra ciauscolo e salame di renna), sostiene la cosiddetta "ipotesi falegnamistica". Essa presuppone che, in tempi non precisati ma grossomodo tardomedievali, un giovanotto interessato a ottenere la mano di una figlia di bottegai osimani abbia mostrato la propria affidabilità e il proprio valore alla famiglia di lei compiendo una serie di lavoretti domestici; in altre parole, il rozzo e meschino mercante avrebbe approfittato del giovane innamorato per non pagare una serie di migliorie e riparazioni necessarie. Una di queste fatiche fu, sempre stando ai finlandesi, il consolidamento e l'imbollettamento comme il faut della latrina di casa, posta a ridosso delle mura cittadine. Lo spasimante, riferendo agli amici dei progressi della propria liaison, si sarebbe quindi riferito a quest'ultimo lavoretto in questi termini: "Dopo ieri so' gido a casa sua, el padre m'ea chiesto sci passao... Ha toccado a daje pure 'na botta ndu che piscia. Speramo che je va be' e che me lassa sta fiola, ch'io d'aggià comincio a straccamme de sfregnetta' per lora". Il passaggio logico successivo è chiaro: la riparazione della latrina assunse presto il significato di atto interessato per eccellenza, e dunque esser pronti a compiere quel lavoretto valse nutrire una passione per una donna. Dallo sposalizio alla semplice attrazione sessuale, il passo non dovette poi risultare lungo. Cfr.: P. KUULO, L'artigiano e la fica: quando due mondi si incontrano, Rovaniemi 1971.
Il luminare congolese Nzifu Gulumbu, professore di Storia medievale e Balli di gruppo all'Ateneo del Katanga, ha proposto una piccola variazione a questa ipotesi, pur mantenendo grossomodo inalterato il contesto storico: egli, influenzato dalla visione di un vecchio film con Paolo Villaggio, ha creduto che non si debba supporre la centralità nella vicenda una figlia di famiglia, bensì quella di una vedova de jure o de facto, tale Cunegonda da San Michele al fiume. Ella, ancor giovane e piacente, avrebbe a un certo punto richiesto l'aiuto di un fabbro per rimuovere una debilitante e ormai ingiustificata cintura di castità (era giunta notizia certa che il marito, Sciapigotto da Pongelli, era deceduto in Anatolia in uno scontro con i Peceneghi). Nei giorni seguenti il fabbro avrebbe riferito a mezza bocca e solo ad amici fidati di aver dato "un colpo ov'ella minge" alla nobile vedova; in seguito, anche per le pressioni del parroco Gustino, i due sarebbero convolati a giuste nozze. Alcune pergamene, ritrovate nell'Ottocento da un prelato che cercava dei fogli di cui necessitava per cacare, recano anzi la testimonianza del viaggio di nozze dei due a Montefelcino (PU; allora, tutt'al più, Ducato di Urbino). Si veda N. GULUMBU, Una vicenda romantica del basso Cesano, in "Dagli all'esploratore: quaderni di storia e cultura africana", 3/IX (1985).
Più complessa, e maggiormente centrata sul problema dell'accumulazione del capitale e sulla storia economica in generale, appare la teoria di Lorenzo von Lorenz, studioso austriaco di etica del capitalismo e formidabile sputatore di noccioli di brigògolo****. Costui, nelle sue usuali peregrinazioni per la Marca, raccolse la leggenda di una donna tanto ricca quanto eccentrica e insopportabile, unica figlia di un facoltoso possidente corinaldese, tale Sabatini. La donna in questione, la fiola d'Sabati', sarebbe stata rossa di capelli, di carattere forte e imperioso e di comportamento mascolino: per molti essa era anzi una strega, tanto che i braccianti della zona si sarebbero rifiutati di lavorare i suoi vasti campi dalle parti di Barbara (la donna, altro tratto curioso e malvisto, era solita recarsi a pisciare nei poderi). La riluttanza delle classi umili a collaborare con la supposta strega poteva certo mettere in grave difficoltà le sue finanze, non fosse stato per l'aiuto prestatole dal vicino Fiorenzo Gagliarducci: questi avrebbe personalmente provveduto a svolgere tutti i lavori necessari alla manutenzione dei campi: tra questi, forse il più gravoso era ed è tutt'ora la pulizia dei fossi, quelli appunto utilizzati dalla fiola d'Sabati' per le proprie minzioni. In questo senso Gagliarducci avrebbe in seguito riferito ai compaesani di aver dato alla ricca possidente "una botta dove piscia"; alle proteste querule di questi ultimi, che lo tacciavano di collaborazione col demonio, il villico avrebbe semplicemente risposto: "Ma po' sta non polede sta' zitti e bada' a camina'? Sci voa' staade un tanti' più diedro a la cocchia capace vedeade meno streghe...".
Il nobile sforzo del Gagliarducci gli avrebbe poi permesso, sempre per il Lorenz (cfr. V. v. LORENZ, La componente amorosa nell'economia di una regione italiana: il caso marchigiano, Wiener-Neustadt 1966) di far breccia nel cuore dell'ereditiera e di sposarla, dando vita a una nobile schiatta di proprietari terrieri e, molto tempo dopo, autoferrotranvieri.
Infine, qualcuno ha voluto mettere in relazione la formula centromarchigiana con quella inglese, "I'd hit it", molto in voga al momento su internet e in generale fra le giovani generazioni di tutto il mondo. Secondo Voinjiro Salamoto, sociologo nippo-senigalliese autore di Garagoj e meme: l'antico, il moderno e quella santa donna di tua madre (Gradara-Nagoya-Rotterdam 2011), il concetto di "dare una botta", "colpire", sarebbe stato originariamente assorbito dai marinai inglesi e scozzesi di passaggio per il porto di Ancona, e da lì ritrasmesso a tutto il mondo nel loro idioma dominante. Contro questa interpretazione stanno molte voci ascoltate e autorevoli; ma il Salamoto ha recentemente chiarito in un breve pamphlet (E sai quantu cazu me ne frega?, Pietralacroce-Heidelberg 2012) che la cosa lo lascia sostanzialmente indifferente. Resta dunque valida, in linea teorica, anche quest'ultima ipotesi che porterebbe nell'era telematica un pezzo di antica saggezza popolare.

* secca arrostita, magra in maniera impressionante.
** vagina; per estensione, donna di bell'aspetto.
*** Johann Budre, ordinario di Marchigianistica alla Reale Accademia di Studi Superiori di Stoccolma; noto soprattutto per avere inventato la regola per cui - nel gioco detto "tedesca" - il gol realizzato di culo elimina all'istante il portiere trafitto.
**** Albicocca.

lunedì 7 maggio 2012

Magna' su la testa (a qualcu')

Modo di dire ben diffuso in tutta la provincia anconetana, "mangiare in testa a qualcuno" descrive un'immagine di per sé molto precisa ed evocativa, che ha poco bisogno di spiegazioni: evidente che si tratti di un modo per significare una superiorità netta e indiscutibile, che non può venir messa in alcun modo in dubbio e che segna fin da principio l'esito finale di una gara, di un sfida, di uno scontro di qualsiasi genere.
Per fare un esempio che tutti possono chiaramente intendere, un incompetente dirà al proprio amico seduto accanto a lui al tavolino di un baretto di Barbara (AN): "Oh, el sai? A me me sa propio che adè 'n se ne troa 'n antro forte quante Cristiano Ronaldo...". Al che l'amico, volgendo la testa e con un guizzo negli occhi acquosi e bonari che sono gli occhi di tanti marchigiani (già nel loro sguardo si avverte un che di balcanico e di strutturalmente fatalista), risponderà allora verosimilmente: "Ma lassa gi', che Messi je magna su la testa a quelo recchió. Bada a sta' zitto, va', ché fe più bella figura. Que dighi, arbeémo*?".
Simili comparazioni, ovviamente, possono essere svolte anche in ambito più umile e familiare e assai meno competitivo. "He isto? ha sposado el fijo de Mengo! A la moje nna conoscio, prò dice che è birba**". "Io la conoscio: è birba perdéro, Me sa che a lue je magna su la zocca***. Va be' che non ce ole la scienza de Marcó****".
Come l'espressione sia nata e si sia diffusa è questione ampiamente dibattuta. Taluni vogliono che la spiegazione a tale colorita metafora sia da ricercare nel Medioevo, vero momento di formazione e fissazione dell'identità regionale, e in particolare nella ricca tradizione monastica che caratterizza le Marche: capofila di questo schieramento è stato Arvidas Marciulonis, filologo, storico e teologo lituano deportato in Siberia dai bolscevichi nel 1919 dopo aver rifiutato di prestare il proprio pettine a un commissario politico dell'Armata Rossa (solo le insistenze della sinuosa moglie Morositas gli valsero più tardi la grazia). Nella sua squallida baracca nella taiga, grazie anche alla vicinanza e all'incoraggiamento dei compagni di detenzione (un contrabbandiere armeno e un orso polare), Marciulonis ebbe comunque la forza di portare a termine la propria opera più significativa, Da Fra Cazzo da Velletri al Borussia Mõnchengladbach: il contributo del monachesimo alla definizione di un'identità europea. Il ponderoso volume, originariamente vergato con olio d'aringa su carta paglia, conobbe solo edizioni parziali e imprecise; il suo influsso ha comunque valicato i confini statali e i decenni, se è vero che qualcuno ne ha individuato un sentore anche nel riuscito monologo di Josè Mourinho dal titolo Non conosco Lo Monaco (Milano 2009).
Ad ogni modo, per quanto riguarda l'espressione in oggetto, Marciulonis, in questo confortato dal contrabbandiere ma non dall'orso polare, riteneva che essa derivasse da un'antica pratica degli ordini mendicanti: ossia, per testarne la fede e l'umiltà, il priore di una comunità consumava di tanto in tanto i propri pasti sul capo dei novizi, munita a questo scopo di comodo spazio libero (la cosiddetta chierica). In questi casi il superiore sceglieva pietanze particolarmente unte e bollenti - frittata di patate, crostoni con formaggio fuso, zuppe e passati di verdure, polenta, ecc. In ogni caso, assistere a tale trattamento chiariva immediatamente ai testimoni oculari chi fosse il superiore e chi il fraticello; sicché consumare il pasto sul capo di un altro divenne, in breve tempo, simbolo e sinonimo di evidente superiorità. Da qui, per il Marciulonis e per il contrabbandiere, ma non per l'orso polare, la genesi del modo di dire.
Altri (cfr. O. POLARE, Sulle vere origini del folklore marchigiano, Vladivostok 1925) ritengono che la visione quasi umoristica del pranzare in capo a qualcuno nasconda una realtà storica assai più brutale. È cosa nota e risaputa, infatti, che diverse tribù e popoli germanici apparvero a varie riprese nelle Marche: dalle prime discese dei razziatori diretti a Roma, proseguendo poi attraverso i Goti di Totila che si stanziarono a Osimo e i numerosi insediamenti longobardi sparsi per la regione, per finire infine con le tracce del risolutivo intervento dei Franchi, c'è sicura testimonianza di una lunga frequentazione fra le genti marchigiane e quelle popolazioni ancora feroci e barbariche. Non è assurdo, dunque, ipotizzare che il mangiare sulla testa sia il retaggio edulcorato di antiche costumanze, cui i contadini e i borghesi galli e piceni, ormai latinizzati, dovettero assistere con orrore: se tutti ricordano quella Rosmunda che dovette bere nel cranio del proprio padre, spolpato e modellato a guisa di coppa, non c'è motivo di escludere l'esistenza storica di una Rosmunda urbinate o maceratese, costretta a nutrirsi dalle (delle?) membra di chissà quale familiare...
D'altra parte, come suggerisce il linguista ucraino-americano Joe Vinko in un articolo uscito per la Gazzetta del Mezzogiorno al posto della cronaca di Bari-Juve Stabia, se è acuta e condivisibile la teoria del Polare, sussiste comunque anche la possibilità che una tale pratica di umiliazione del corpo del nemico sia stata praticata dai Galli Senoni - noti cacciatori di teste - ben prima dell'arrivo dei cosiddetti barbari, e anzi prima della battaglia del Sentinum (295 a. C.) che doveva dare inizio a otto secoli di dominio romano sulle odierne Marche. I romani, non meno crudeli ma assai meno truci, l'avrebbero anzi abolita. Si veda in ogni caso J. VINKO, Bari e Juve Stabia a braccetto verso la salvezza ne "La Gazzetta del Mezzogiorno", 5 marzo 2012.
Di quella ferocia antica, che sia stata praticata o subita dai marchigiani, o per meglio dire dai loro antenati, non resta oggi che un ricordo esorcizzato; ma, anche dietro l'eufemismo, l'odierno modo di dire conserva quella sicura ed evidente riprova della superiorità di un uomo su altri uomini di cui tanta crudeltà doveva essere una testimonianza piuttosto eloquente.

* Beviamo di nuovo.
** Furba, sveglia.
*** Testa.
**** "La scienza di Marconi", ossia una particolare preparazione e competenza specifica.

giovedì 2 febbraio 2012

La sera orsi, la madina arsi

Modo di dire dall'utilizzo chiaramente limitato all'ambito della notte brava, e della seguente risacca, esso - com'è evidente a tutti- trova il suo corrispondente quasi perfetto in italiano nel rozzo detto "Di notte leoni ecc.". Con la differenza, tuttavia, che non solo nella versione marchigiana si utilizza nella prima parte della frase un diverso animale, ma si evita poi la volgarità gratuita e (diciamolo) fastidiosa, ricorrendo invece a un'aggettivazione all'apparenza più neutra e precisa, che ha tuttavia il vantaggio di un'allitterazione non banale.
La formula, non c'è neanche bisogno di specificarlo, si usa fondamentalmente in due occasioni e due contesti: tra ragazzi che scherzino su una loro serata, o che stiano prendendo di mira in particolare un amico che ci è rimasto bozzado, oppure quando è un adulto - uno di quegli adulti gravi e seriosi che ancora esistono in provincia, dove la pornografia dell'eterna giovinezza non ha attecchito come in città - a rivolgersi a un giovane o a più giovani. "Comm'è, oggi 'n te ne a* de beve? O leggera...", dirà perciò un ragazzo rivolgendosi all'amico che fatica a mandar giù una tazza di tè, richiesta al bar del paese in luogo della solita birra. "Ma bada a camina'! Te vara a sto poccialatte**, vole veni' a 'mpara' a beve a me...". "Eh, prò intanto te fe na tisana: que te manca, l'idradazio'? La sera orsi la madina arsi, nn'è ve'?".
Nel caso invece in cui sia un vecchio - lato sensu - a rivolgersi ai ragazzi reduci da un tour de force alcolico o d'altro genere, resi riconoscibili dallo sguardo stanco e dal pallore funereo, non mancherà un minimo di complicità: la stessa connotazione sarcastica ma non derisoria del detto ne prova il fondo di bonarietà. "O munelli, emo vejado stanotte?". "Eh... È cucì...". "V'ho visto da nfra le persiane, stamadina presto, tutti taccadi a le cannelle de la piazza: como se dice, la sera orsi e la madina arsi...". "Eh... È cucì..." chioseranno a quel punto i ragazzi, senza riuscire a trovare nulla di più acuto e intelligente per proseguire il discorso (vedi anche, a questo proposito, F. MORICHINI, La mattina dopo la sera del dì di festa. Dialettica marchigiana in condizioni estreme, Montecassiano 1958).
L'origine del detto non è chiara. Vi sono in effetti almeno due diverse teorie che si scontrano frontalmente. La prima è quella del prof. Crocro dell'Ateneo di Bellinzona-Mendrisio; questi, allievo del Windisch-Grätz ed emulo dei suoi rivoluzionari studi in materia di alimentazione, ritiene che l'arsura evocata nel modo di dire sia un eufemismo che coprirebbe una realtà ben più tragica. Questa avrebbe a che fare con una mitica battuta di caccia, avvenuta nella notte dei tempi o per meglio dire nell'Alto Medioevo, quando l'Europa era ricoperta di nere foreste impenetrabili e le Marche - oggi tanto levigate - non facevano eccezione a tale regola. Per essere più chiari, Crocro sostiene che vi sia stata in quell'epoca dalle parti del Monte Nerone una leggendaria caccia all'orso, cui avrebbero partecipato di sicuro gli esponenti più in vista delle famiglie nobili marchigiane, in particolare di quelle dell'entroterra urbinate (si suggerisce la presenza di un Brancaleoni, di un Ubaldini, di un Montefeltro). Quella caccia sarebbe terminata con l'uccisione di uno o più plantigradi e con l'allestimento di un grande banchetto; ma non sapevano, i tapini (ancorché nobili), che il fegato degli ursidi è velenoso per gli esseri umani: sicché la loro presunzione di voler consumare dei fegatelli come culmine della loro gran cena li portò già durante la notte a un'intossicazione fatale. L'aspetto delle salme, con la pelle consumata e quasi bruciata dalla bomba vitaminica, valse a suggerire l'idea di un'arsura mortale; e la sentenza "La sera orsi la madina arsi" passò ben presto in proverbio (cfr. A. CROCRO, La golosità nei secoli. Per una storia ragionata degli jótti, Lecco 1996, e anche E. BORGOGNONI-TANCREDI, Mortalità accidentale de' nobili della Marca, San Costanzo 1875).
Un'altra ipotesi pone invece la genesi di questo modo di dire ben più addietro nel tempo. Si fa dunque riferimento, in questa tesi particolarmente cara agli storici del linguaggio di scuola germanica, alla ben nota scorreria dei Galli Senoni, ultimi arrivati e più meridionali tra i Celti italiani, i quali all'inizio del IV secolo a. C. giunsero a saccheggiare Roma per poi ritornare nelle loro sedi sull'Appennino marchigiano. È noto da molteplici fonti e esplicitamente ammesso anche dagli storici romani che la battaglia sul fiume Allia, che aprì ai Galli le porte dell'Urbe, fu vinta soprattutto grazie all'inusitato furore e al coraggio sovrumano e incosciente dei guerrieri Senoni, non numerosi né particolarmente dotati di acume tattico.
Secondo alcune interpretazioni di certi passi classici, il furor gallicus che atterrì le legioni era soprattutto quello di certi combattenti vestiti solo di una pelle d'orso, i quali, anche per l'assunzione prima della battaglia di alcune droghe eccitanti e allucinogene, parevano invasati e invulnerabili. Si sa d'altronde che i guerrieri-orso, i cosiddetti berserker, sono una realtà storica accertata nel mondo celtico e germanico; ma la loro prima apparizione in Italia colpì i nemici tanto da sbandarli e portarli alla disfatta.
D'altra parte, è altamente probabile che la maggioranza di quegli "orsi" non sopravvisse alla battaglia, sia per le ferite riportate, sia per le conseguenze venefiche delle sostanze assunte. Il giorno dopo la grande battaglia, perciò, furono innalzate delle grandi pire su cui vennero bruciati i cadaveri dei caduti e, con particolare solennità, quelli dei guerrieri-orso. Il distico "La sera orsi/ la madina arsi" trarrebbe perciò origine da quell'episodio e celebrerebbe quegli eroi che non potevano essere ricordati in altro modo, data l'assenza di complessi monumentali e di simili mausolei nei villaggi gallici. Dopo la conquista romana dell'Ager gallicus e l'assimilazione dei Senoni, la genesi storica della formula e il suo reale significato sarebbero andati perduti; ma quella semplice ed evocativa frase sarebbe invece rimasta nel patrimonio folcloristico delle genti dell'entroterra anconetano, inconsapevoli di rinnovare in quel modo, di tanto in tanto, la propria lontana e gloriosa origine gallica.
Tale interpretazione, diffusa dal linguista tedesco di Boemia Karl-Heinz Kaninchenfresser nel suo Ebbrezza e virilità: le origini guerresche e comunitarie dell'ubriachezza molesta (Nürnberg 1851), fu poi tacciata dalla protofemminista inglese Susan Dishdropper di maschilismo, esaltazione della violenza, nazionalismo germanico e propagandismo di un'idea antica e ingiusta di società. In un suo lungo e articolato saggio, uscito in seguito a Bamberga e concepito come risposta ideale a tali infamanti accuse, il Kaninchenfresser invitò la suffragetta a tornare in cucina. In seguito i due ebbero una relazione che produsse tre figli e un romanzo storico a quattro mani (Lady Godiva, o l'amore al modo degli animali, Norwich 1866).

* Va; la vu intervocalica, nei dialetti marchigiani centrali, è spesso debole e talvolta viene del tutto eliminata.
** "Succhialatte", marmocchio.

mercoledì 25 gennaio 2012

Ce senti, cerqua?

Se si vuol trovare un albero peculiare e archetipico del paesaggio marchigiano, in grado di diventarne un simbolo come il cipresso lo è della Toscana o il pioppo della Lombardia padana, allora la scelta dovrà invariabilmente ricadere sulla quercia. Questa, presente in fitti boschi ai margini delle zone montane o isolata e maestosa sul ciglio delle strade provinciali, incarna in un certo qual modo un'idea antica ma ancora attuale di marchigianità (anche come fornitrice di ghianda necessaria all'allevamento del maiale, l'antico Salvatore che permetteva alle famiglie contadine di passare l'inverno). Non stupisce dunque che, avendo tale importanza nel panorama reale e simbolico, abbia finito per guadagnare un ruolo anche nell'immaginario dei marchigiani e in uno dei loro detti tipici.
Esso, molto marchigianamente, è un inno alla tenacia e all'ostinazione; più precisamente, la formula coglie e sottolinea il momento in cui lo sforzo prolungato viene infine premiato. Questo è simboleggiato, e non poteva essere altrimenti, dalla sottomissione della quercia; perfino l'imperturbabile e secolare quercia deve alla fine accorgersi dell'impegno continuato, e per certi versi cieco e animalesco, del contadino marchigiano (o del suo discendente).
La formula si utilizza quindi per chiosare un tentativo lungo e faticoso, quando viene finalmente coronato dal successo. In origine lo si impiegava in maniera specifica in relazione a uno sforzo violento o comunque fisico: la forzatura di una serratura in un capanno di campagna, ad esempio, quando l'uomo sudato esclamava soddisfatto "Ce senti, cerqua?", osservando la porta di lamiera aperta a forza di scossoni e di Arcamadò più o meno sussurrati. In seguito, il modo di dire si è allargato a sforzi anche metaforici e perfino preventivi: "Oh, duma' el professore de fisiga ha 'etto che interroga su nigò*; e quello è tristo...". "Me fa na sega. Io ho studiado tutto el programma e so' gido a 'rvarda'** pure la robba de anno***. Ce senti, cerqua?".
Le origini del detto, ad ogni modo, sono avvolte nel mistero. Una possibile spiegazione, fornita dall'antropologo sanmarinese Febo Maria Graffiedi, chiama in causa un certo Alessandro Tomassini, vissuto a Montenovo (ora Ostra Vetere) nel XVIII secolo e famoso per la capigliatura folta e riccia, di cui, con un moto di anacronistica negritudine, il Tomassini andava fierissimo. Per i folti boccoli che gli ricadevano in fitta schiera ai lati della testa, egli era perciò detto "Cerqua" (cfr. F. M. GRAFFIEDI, Persone che somigliano a cose: miti e riti di un'appartenenza dibattuta, Verghereto 2009). Pare dunque che nella primavera del 1749, il giorno di San Giorgio, Tomassini avesse deciso di recarsi in paese a bere qualcosa all'osteria, stanco per una lunga mattinata di lavoro nei campi. Il caso volle, tuttavia, che il Cerqua si trovasse a percorrere per entrare a Montenovo la stessa strada che quel giorno doveva accogliere il vescovo di Senigallia, in visita nella diocesi; sicché Tomassini lasciò le sue impronte terrose sulla via coperta di petali e di tappeti, giungendo anche a utilizzare certi festoni vegetali per pulirsi le rozze calzature incrostate di fango. Le sue azioni - dettate non da anticlericalismo, ma da completa dimenticanza di quella visita - furono però notate dal birro Fratesi Giovanni, il quale cominciò a urlare da lontano in direzione del Cerqua: "Càvvede da la strada, ciambotto! Non el sai che 'rria el vescovo? E sgràscede**** lì casa, sci t'hai da sgrascià...". A questo e altri inviti altrettanto accorati e coloriti, tuttavia, Tomassini non rispose, perché la sua foltissima capigliatura gli premeva sulle orecchie per effetto del sudore e gli impediva di udire alcunché. Per questo motivo la guardia fu alla fine costretta a prendere la rincorsa e a ribaltare con una spallata il villico distratto, rovesciandolo dolorante in un fosso. Gli abitanti del paese e le vecchie più devote mormorarono perciò, commentando l'episodio: "Ce senti, Cerqua?" (si legga la testimonianza dell'Abate Calbini, in La visita pastorale di Sua Eminenza Monsignor Puppa, la prodigiosa mongana del signor Morbidelli, agricoltore, e altri eventi poco o affatto interessanti che si haverono in Montenovo l'anno appena passato, Vaccarile di Montalboddo 1750). Dopo di allora, l'accaduto si trasformò in aneddoto e divenne proverbiale, varcando ben presto i ristretti confini comunali.
Contro questa interpretazione, giudicata meccanicistica e pretestuosa, si pone la riscoperta della figura ben più peculiare e notevole di Curzio Patrignani, imprenditore agricolo illuminato e musicista di buon livello. Questi, dopo aver studiato al Conservatorio di Pesaro e aver fatto parte per un certo periodo dei Wiener Philarmoniker (poi abbandonati perché "non faceva in tempo ad andare a chiudere gli animali": cfr. H. KAMERADEN, Was machst du, verdammte Sau? Spiel weiter!, in AA. VV., Kleine Geschichte der österreichischen Musik, Untersiebenbrunn 1966), si ritirò dalle parti di Acquasanta di Jesi dove provò ad impiantare una "fattoria creativa": tra le altre cose, egli teorizzò l'importanza della musica nel favorire la crescita delle colture e il buon carattere degli animali. Per questo motivo, egli riuniva ogni pomeriggio gli animali da cortile sull'aia intorno alla grande quercia, e poi cominciava a suonare il violino per una buona mezz'ora. Il caso volle che una sera si appoggiassero alla staccionata della sua proprietà anche due mezzadri di ritorno dal lavoro, per ascoltare il concerto. Dopo qualche minuto di note ad esso incomprensibili, il grosso guerre***** Johann Sebastian preferì lanciarsi contro la quercia e farne cadere una grandine di ghiande. I due contadini, coperti dall'albero stesso, non videro il maiale e notarono con stupore che la musica aveva fatto cadere le ghiande: "He isto?" si dissero dunque - sgomenti - i due: "La cerqua ha 'nteso!".
Purtroppo il terreno nella zona a nord di Jesi, com'è noto, è argilloso; questo rendeva poco probabile una qualsiasi crescita miracolosa delle piante, il che si ripercuoteva a sua volta sul morale delle bestie. In effetti in seguito Tomassini si arruolò come primo sassofonista nella Legione Straniera, per cadere con lo strumento in mano a Dien Bien Phu; il che avrebbe reso la sua memoria ancora più mitica e venerata, contribuendo peraltro a diffondere i racconti relativi alla sua vita, e tra questi l'incredibile episodio della quercia "udente".
Infine, lo storico e linguista croato Damir Petkuraca, valente studioso delle cose adriatiche, propone una sua spiegazione tutta particolare: a suo giudizio, infatti (si veda: D. PETKURACA, Du ello? Vara sci sta' lì de ó. Misteri e stranezze nelle Marche pre-industriali, Traghetto Ancona-Spalato 1989), l'apparente nonsense dell'espressione nasconderebbe un codice. Per l'esattezza, domandando "Ce senti cerqua?" a Malvina Lillini, coniugata Ubaldi, il playboy rurale Alfio Mastrucci avrebbe in realtà inteso "Ce se' nte [la] cerqua?": la donna, infatti, era usa nascondersi tra le fronde di un albero ai confini del proprio terreno per attendere l'arrivo del proprio ganzo...
In seguito, questa ipotesi sarebbe stata giudicata improbabile e sistematicamente demolita da studi successivi; lo stesso Petkuraca, interrogato a proposito alla Sagra degli Asparagi di Avacelli, ammise senza difficoltà che al momento di scrivere il volume era ubriaco "como na toppa". La querelle tra professoroni, peraltro, si sarebbe chiusa quella sera stessa con l'offerta da parte del Petkuraca di diverse bottiglie di vino buono.

* Tutto.
** Riguardare.
*** L'anno scorso.
**** Pulisciti.
***** Maiale castrato.