martedì 11 dicembre 2012

Zuppo de terra

C'è un tipo di persona davanti alla quale l'osservatore educato, cittadino, magari cosmopolita non può che ritirarsi inorridito, per quanto ben disposto voglia essere quest'ultimo: tale persona rozza, triviale, penetrata e impregnata in ogni fibra del proprio essere di ignoranza atavica e villania irrecuperabile, è per l'appunto lo "zuppo de terra".
Tale zuppaggine connatura e definisce il malcapitato, che d'altronde non avverte la propria sfortuna, in ogni senso: essa lo rende disattento - per dir poco! - ai dettami del vivere civile, e in più incapace di rapportarsi a tutte le invenzioni e le trovate che sono il frutto dell'intelligenza umana, le quali rendono più facile e degna di essere vissuta la nostra esistenza su questa terra. Dirà per esempio un tale, sbuffando e bestemmiando piano, di fronte a un qualche attrezzo tecnologico che pare resistergli e il cui funzionamento gli sfugge: "Que diaolo dovrìa rappresenta' sto ciaffo? E miga fa na sega, tocca portallo a commeda'*!". "Ma que voi commeda', bada a camina'...", ribatterà un amico o un conoscente, con tono appena sussiegoso, apprestandosi a risolvere il facilissimo intoppo, "Passeme sto fregno, te fo vede io, o zuppo de terra. To', ce volea 'n bel po'...".
Ma lo zuppo di terra, per sua natura, non osserva e non apprende; egli si limita a recitare nel teatro della vita la propria parte meschina.
A proposito di teatro, può capitare anche che un amante dell'alta cultura esca in tarda serata da un'opera o da un concerto, e incontri sulla via alcuni giovani - più o meno avvinazzati - che blaterano qualcosa a voce elevata o, peggio ancora, giocano con il proprio cellulare e impongono all'aere circostante l'ascolto di una qualche melodia della dance marocchina. "Ma te vara sti zuppi de terra! E i fa sgappa' fora da 'n teadro... Sarìa da taccalli su** tutti!". "Scì, ma 'n te ne pia'...", dirà la moglie. "E miga me ce stizzo***! Io fo pel be' de lora...". Così dicendo, cercando di soffocare il nervoso e di ripensare a Bach, l'uomo si dirigerà alfine verso casa, nel confortante silenzio notturno.
Ma che origine ha lo zuppo di terra (inteso come espressione)? Le ipotesi sono varie. La prima e forse più diffusa è quella "ecclesiastica", teorizzata a suo tempo dall'abate Pompetta (Pio Calamaro Pompetta, nato a Montegranaro nel 1745; meglio noto come segretario particolare di vari pontifici, nonché inventore dei guanti senza dita e del cappello da croupier). Questi, di umile origine, sostiene sdegnato nel suo Mala educatio gentium marchianorum, sive Marchae merda iuvenes (Subiaco 1787): "Pare all'umile giudizio di me medesimo, confortato in ciò dall'opinione di grandi sapienti et eruditi con i quali ebbi a favellare sul tema, che la trista e soverchia fierezza de' nobili e cittadini marchiani dovette chiamare «zuppi di terra» i villici, i ciabattini, li stracciaroli et altri umili figli del Signore, con esso nome rimandando all'Antico Testamento et in ispecie alla Genesi ove si dice che Dio Padre fece l'uomo dall'argilla; ritenendosi invece a converso i nobili et i ricchi discendenti non di quell'uomo di argilla, e bene sì del rosso Adamo. Dimenticando guari a bella posta i secondi che anche nell'uomo di argilla fu posto il soffio divino e che questi, lo zuppo di terra, è uomo compagno ad Adamo et egualmente a lui valido e figlio dinanzi al Signore... Certo in questo inganno essi ebbero d'avvantaggio la stolida ignoranza, purtroppo sì diffusa nelle campagne marchiane, pronte sempre allo sputo in terra et alla bestemmia ma poco disposte allo studio della dottrina...".
Questa ipotesi, in epoca di cattolicesimo sociale, fu poi fatta propria da Rezio Riezio e Don Fabio Camalli, storici maceratesi che videro nell'abbruttimento delle masse da parte delle classi dominanti la radice di tante fragilità regionali e anche della possibilità di penetrazione delle perniciose idee socialiste (cfr. R. RIEZIO, Sor padro', alme' non me toccade la sposa!, in "L'abbise. Quaderni di storia e cultura marchigiana", 10/XXII, Macerata 1976. Per Camalli purtroppo non c'è bibliografia disponibile perché la sua perpetua, Zelmira, era usa adoperarla per attizzare il fuoco).
La scuola materialista, più vicina alle posizioni politiche progressiste e socialcomuniste, ha voluto invece vedere in quello "zuppo" una nota tragicamente reale e alimentare. In particolare essa ha fatto proprie le idee dello storico tedesco Guido Weitenpisser, formatosi a Heidelberg ma poi rimasto una ventina d'anni nascosto a Monte San Vito (AN), in seguito a una sordida storia di frequentazioni con studentesse e gravidanze negate. A margine del suo impiego da rappresentante della Manifattura Tabacchi di Chiaravalle, Weitenpisser portò avanti i propri studi storico-linguistici; esaminando certe carte ecclesiastiche, soprattutto, egli lesse come "Numero grande di contadini e poveri passarono all’altra vita, onde non coltivate le campagne fu tanto peggio nel 1588 e 1589 e 90 e 91: e però la poveraglia morì senza numero non solo, ma ancora non poche persone comode". Questo lo portò a ritenere che un grosso numero di contadini, in quel periodo, saziasse la propria tremenda fame solo con minestroni di radici di scarso potere nutritivo, e in seguito con veri e propri infusi di terra e erba, prima di trascinarsi in città per ricercare qualche elemosina o un qualsiasi lavoro dai mercanti italiani e orientali o dal clero. Agli occhi dei relativamente fortunati abitanti della città il muso emaciato e terroso dei campagnoli doveva apparire indimenticabile; ancora anni e decenni dopo la fine dell'emergenza, si terrorizzavano i bambini dicendo loro che, se non avessero mostrato rispetto per i genitori, a cena avrebbero avuto zuppa di terra come i contadini durante la carestia. Dalla zuppa di terra allo zuppo di terra, e dunque al povero villico ridotto in condizioni morali e materiali degradanti, il passo è evidentemente breve. Si veda G. WEITENPISSER, Essen und Kotzen in Zentralmarken, 1550-1650, Cozze di Monte San Vito-Uerdingen 1965, poi parzialmente tradotto e popolarizzato da A. LIMORTACCI, Ricchi di merda. Appunti per una storia proletaria del mondo e dei cani, Cremona 1973.
L'ultima ipotesi, minoritaria, ha a che fare con la ben nota immigrazione degli slavi nelle Marche all'epoca delle invasioni turche nei Balcani e comunque quando l'Italia viveva la propria rinascita rinascimentale dopo la crisi del Trecento. Questi immigrati, anche quando si trovavano costretti a esercitare lavori umili con retribuzioni certo non eccezionali, mostravano spesso un orgoglio peculiare, motivandolo con la propria passata condizione nella loro terra d'origine: certi si dicevano cioè condottieri o soldati particolarmente abili, altri artisti o artigiani di pregio, alcuni rivendicavano perfino uno status di nobili o di capi di una regione ("župa", in lingua serbo-croata).
Il popolino, tuttavia, non poteva ignorare la contraddizione fra l'arroganza degli župani e la bassezza delle loro esistenze; questo portò sovente a episodi di rozza e tagliente ironia nei loro confronti e alla coniazione del nomignolo župani de terra per quelli che erano impegnati in agricoltura. Nel corso delle generazioni si perse il senso e la parola stessa di župan, che si trasformò nel più simile dei termini neolatini, d'altronde singolarmente pregnante in quella espressione. Tale teoria fu illustrata per la prima volta a Civitanova Marche nel 1981 da Dragan Cvitanić, decano dei linguisti croati, durante il convegno "Adriatico, mare di mistificatori: per una nuova etica della truffa e del raggiro levantino". La conferenza, interessante e assai seguita in sé, è particolarmente ricordata perché negli stessi giorni si giocò anche l'amichevole Hajduk Spalato-Sambenedettese, conclusasi quasi senza incidenti di rilievo e in ogni caso all'insegna della sportività.
Gli atti del convegno, per chi volesse approfondire le tesi di Cvitanić, sono anzi disponibili in quasi tutti i baretti in cui si riuniscono gli ultrà della Samba.


* (ar)commeda': riparare, mettere a posto.
** tacca' su: impiccare.
*** stizzasse: arrabbiarsi.