mercoledì 25 gennaio 2012

Ce senti, cerqua?

Se si vuol trovare un albero peculiare e archetipico del paesaggio marchigiano, in grado di diventarne un simbolo come il cipresso lo è della Toscana o il pioppo della Lombardia padana, allora la scelta dovrà invariabilmente ricadere sulla quercia. Questa, presente in fitti boschi ai margini delle zone montane o isolata e maestosa sul ciglio delle strade provinciali, incarna in un certo qual modo un'idea antica ma ancora attuale di marchigianità (anche come fornitrice di ghianda necessaria all'allevamento del maiale, l'antico Salvatore che permetteva alle famiglie contadine di passare l'inverno). Non stupisce dunque che, avendo tale importanza nel panorama reale e simbolico, abbia finito per guadagnare un ruolo anche nell'immaginario dei marchigiani e in uno dei loro detti tipici.
Esso, molto marchigianamente, è un inno alla tenacia e all'ostinazione; più precisamente, la formula coglie e sottolinea il momento in cui lo sforzo prolungato viene infine premiato. Questo è simboleggiato, e non poteva essere altrimenti, dalla sottomissione della quercia; perfino l'imperturbabile e secolare quercia deve alla fine accorgersi dell'impegno continuato, e per certi versi cieco e animalesco, del contadino marchigiano (o del suo discendente).
La formula si utilizza quindi per chiosare un tentativo lungo e faticoso, quando viene finalmente coronato dal successo. In origine lo si impiegava in maniera specifica in relazione a uno sforzo violento o comunque fisico: la forzatura di una serratura in un capanno di campagna, ad esempio, quando l'uomo sudato esclamava soddisfatto "Ce senti, cerqua?", osservando la porta di lamiera aperta a forza di scossoni e di Arcamadò più o meno sussurrati. In seguito, il modo di dire si è allargato a sforzi anche metaforici e perfino preventivi: "Oh, duma' el professore de fisiga ha 'etto che interroga su nigò*; e quello è tristo...". "Me fa na sega. Io ho studiado tutto el programma e so' gido a 'rvarda'** pure la robba de anno***. Ce senti, cerqua?".
Le origini del detto, ad ogni modo, sono avvolte nel mistero. Una possibile spiegazione, fornita dall'antropologo sanmarinese Febo Maria Graffiedi, chiama in causa un certo Alessandro Tomassini, vissuto a Montenovo (ora Ostra Vetere) nel XVIII secolo e famoso per la capigliatura folta e riccia, di cui, con un moto di anacronistica negritudine, il Tomassini andava fierissimo. Per i folti boccoli che gli ricadevano in fitta schiera ai lati della testa, egli era perciò detto "Cerqua" (cfr. F. M. GRAFFIEDI, Persone che somigliano a cose: miti e riti di un'appartenenza dibattuta, Verghereto 2009). Pare dunque che nella primavera del 1749, il giorno di San Giorgio, Tomassini avesse deciso di recarsi in paese a bere qualcosa all'osteria, stanco per una lunga mattinata di lavoro nei campi. Il caso volle, tuttavia, che il Cerqua si trovasse a percorrere per entrare a Montenovo la stessa strada che quel giorno doveva accogliere il vescovo di Senigallia, in visita nella diocesi; sicché Tomassini lasciò le sue impronte terrose sulla via coperta di petali e di tappeti, giungendo anche a utilizzare certi festoni vegetali per pulirsi le rozze calzature incrostate di fango. Le sue azioni - dettate non da anticlericalismo, ma da completa dimenticanza di quella visita - furono però notate dal birro Fratesi Giovanni, il quale cominciò a urlare da lontano in direzione del Cerqua: "Càvvede da la strada, ciambotto! Non el sai che 'rria el vescovo? E sgràscede**** lì casa, sci t'hai da sgrascià...". A questo e altri inviti altrettanto accorati e coloriti, tuttavia, Tomassini non rispose, perché la sua foltissima capigliatura gli premeva sulle orecchie per effetto del sudore e gli impediva di udire alcunché. Per questo motivo la guardia fu alla fine costretta a prendere la rincorsa e a ribaltare con una spallata il villico distratto, rovesciandolo dolorante in un fosso. Gli abitanti del paese e le vecchie più devote mormorarono perciò, commentando l'episodio: "Ce senti, Cerqua?" (si legga la testimonianza dell'Abate Calbini, in La visita pastorale di Sua Eminenza Monsignor Puppa, la prodigiosa mongana del signor Morbidelli, agricoltore, e altri eventi poco o affatto interessanti che si haverono in Montenovo l'anno appena passato, Vaccarile di Montalboddo 1750). Dopo di allora, l'accaduto si trasformò in aneddoto e divenne proverbiale, varcando ben presto i ristretti confini comunali.
Contro questa interpretazione, giudicata meccanicistica e pretestuosa, si pone la riscoperta della figura ben più peculiare e notevole di Curzio Patrignani, imprenditore agricolo illuminato e musicista di buon livello. Questi, dopo aver studiato al Conservatorio di Pesaro e aver fatto parte per un certo periodo dei Wiener Philarmoniker (poi abbandonati perché "non faceva in tempo ad andare a chiudere gli animali": cfr. H. KAMERADEN, Was machst du, verdammte Sau? Spiel weiter!, in AA. VV., Kleine Geschichte der österreichischen Musik, Untersiebenbrunn 1966), si ritirò dalle parti di Acquasanta di Jesi dove provò ad impiantare una "fattoria creativa": tra le altre cose, egli teorizzò l'importanza della musica nel favorire la crescita delle colture e il buon carattere degli animali. Per questo motivo, egli riuniva ogni pomeriggio gli animali da cortile sull'aia intorno alla grande quercia, e poi cominciava a suonare il violino per una buona mezz'ora. Il caso volle che una sera si appoggiassero alla staccionata della sua proprietà anche due mezzadri di ritorno dal lavoro, per ascoltare il concerto. Dopo qualche minuto di note ad esso incomprensibili, il grosso guerre***** Johann Sebastian preferì lanciarsi contro la quercia e farne cadere una grandine di ghiande. I due contadini, coperti dall'albero stesso, non videro il maiale e notarono con stupore che la musica aveva fatto cadere le ghiande: "He isto?" si dissero dunque - sgomenti - i due: "La cerqua ha 'nteso!".
Purtroppo il terreno nella zona a nord di Jesi, com'è noto, è argilloso; questo rendeva poco probabile una qualsiasi crescita miracolosa delle piante, il che si ripercuoteva a sua volta sul morale delle bestie. In effetti in seguito Tomassini si arruolò come primo sassofonista nella Legione Straniera, per cadere con lo strumento in mano a Dien Bien Phu; il che avrebbe reso la sua memoria ancora più mitica e venerata, contribuendo peraltro a diffondere i racconti relativi alla sua vita, e tra questi l'incredibile episodio della quercia "udente".
Infine, lo storico e linguista croato Damir Petkuraca, valente studioso delle cose adriatiche, propone una sua spiegazione tutta particolare: a suo giudizio, infatti (si veda: D. PETKURACA, Du ello? Vara sci sta' lì de ó. Misteri e stranezze nelle Marche pre-industriali, Traghetto Ancona-Spalato 1989), l'apparente nonsense dell'espressione nasconderebbe un codice. Per l'esattezza, domandando "Ce senti cerqua?" a Malvina Lillini, coniugata Ubaldi, il playboy rurale Alfio Mastrucci avrebbe in realtà inteso "Ce se' nte [la] cerqua?": la donna, infatti, era usa nascondersi tra le fronde di un albero ai confini del proprio terreno per attendere l'arrivo del proprio ganzo...
In seguito, questa ipotesi sarebbe stata giudicata improbabile e sistematicamente demolita da studi successivi; lo stesso Petkuraca, interrogato a proposito alla Sagra degli Asparagi di Avacelli, ammise senza difficoltà che al momento di scrivere il volume era ubriaco "como na toppa". La querelle tra professoroni, peraltro, si sarebbe chiusa quella sera stessa con l'offerta da parte del Petkuraca di diverse bottiglie di vino buono.

* Tutto.
** Riguardare.
*** L'anno scorso.
**** Pulisciti.
***** Maiale castrato.

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