giovedì 22 dicembre 2011

Straccamerigge

Nel colorito pantheon dei modi di dire marchigiani, e dunque nella maniera in cui in questa regione si descrive il mondo percepito, la figura dello straccamerigge spicca per una sua particolarità: costui non è infatti definito e individuato per una presenza (per ciò che fa, per come lo fa), bensì per un'assenza. Lo straccamerigge è infatti colui che non fa assolutamente nulla, colui che parte con l'intenzione programmatica di non compiere alcunché di utile e in generale di non attivarsi in alcun modo.
Il nome, di delicata poesia, spiega già tutto. Se stracca' significa infatti, come tutti intendono, "stancare", la meriggia, con curiosa traslazione semantica dal suo originale significato di "ora di mezzogiorno", indica invece il luogo coperto, fresco, in cui semmai ripararsi dal sole estivo a picco, che brucia la pelle e la cervice del povero contadino. Quest'ultimo, non a caso, brama perpetuamente il momento del riposo da trascorrere "sotta la meriggia", cioè all'ombra; tanto che quest'ultima espressione è diventata anch'essa proverbiale e diffusissima tra i marchigiani, quasi si trattasse di un piccolo spaccato di godimento metà epicureo e metà rurale (abbiamo già visto in altri casi, d'altronde, come le Marche siano in sostanza un incontro tra civiltà classica e realtà contadina, e come i due mondi si compenetrino de facto inestricabilmente).
In un mondo regolato dai ritmi della fatica, chi si sottrae ad essa e resta più del lecito all'ombra - appunto sotta la meriggia - si segnala rapidamente; gli altri si domandano che fine abbia fatto e ben presto lo identificano come lavativo ("Du ello* adè? Non el sa che emo da arpia' 'l fadigo?". "Du voi che ello... È armasto lì la pergola, a beve 'l vi' e a badurlasse**". "Arca mado', è propio no straccamerigge"). L'origine etimologica sembra dunque ben chiara: chi trascina l'ombra del giorno ben oltre il lecito, fino assurdamente a stancarla, è con tutta evidenza colui che si sottrae al dovere e mette gli altri in condizione di dover lavorare anche per lui. Si confronti comunque l'ampia trattazione del lemma in A. KNICKERBOCKER-MASSACCESI, Etica calvinista sto cazzo: assenteismo e fuga dal lavoro nella prima Età Moderna, Albany 1992.
Vi sono tuttavia ipotesi discordanti. Il Po Di Goro (Massimo Vincenzo Po Di Goro, classicista dell'Università di Bologna e fiero rivale del Pascoli all'epoca dei suoi trionfi nei certamen di poesia latina) ritiene infatti che l'espressione giunga da ben più lontano e, per così dire, da più sotto. Il primigenio straccamerigge sarebbe, a suo parere (vedi M. V. PO DI GORO, Giove, governo ladro: lasciti classici nella tradizione popolare, San Giovanni in Persiceto 1908), nient'altro che il musico e poeta Orfeo. Questi, com'è noto, entrò da vivo nell'Ade e ne uscì con la sua amata Euridice, pur perdendola poi a un passo dalla salvezza. Ma come poté domare le anime dei morti? Come seppe rabbonirle? A questa domanda Po Di Goro risponde che Orfeo fece ciò con la musica e il canto, intrattenendo le ombre fino a stancarle e distrarle: da qui la prima versione dello straccamerigge, evidentemente ancora positiva e degna di ammirazione. In seguito, essendo Orfeo comunque un musicista e un cantore errante, e dunque un vagabondo, finì per prevalere invece l'associazione tra straccamerigge e nullafacenti (come ben mostra lo studioso Oscar Luigi Cicinho nel suo ponderoso Musicisti, giocolieri e mangiafuochi nel paesaggio urbano marchigiano: inutili o dannosi?, Carpegna 1997).
Una ulteriore ipotesi è stata ventilata di recente a un grande convegno con grigliata finale, tenutosi sulla spiaggia di Mezzavalle e terminato tra le bestemmie per la difficoltà di riportare su tutta quell'attrezzatura fino alla strada provinciale soprastante. In quell'occasione, fra il vivo interesse dei bagnanti, il prof. Wunder dell'Università di Berna affermò che lo straccamerigge fosse da identificare con la figura storica di Enrico Stracca-Merigge, fratello del notissimo giurista anconetano Benvenuto Stracca e progenitore del ramo cadetto della famiglia. Questi - intendiamo Enrico, o Righetu - si contrapponeva all'attivismo intellettuale e alla grande produzione del fratello, vero riformatore del diritto marittimo e inventore del diritto commerciale con i suoi fondamentali De Mercatura e De assicurationibus; si contrapponeva, dicevamo, restando semplicemente fermo, intento solo a mangiare crostacei in porchetta, senza che valessero a distrarlo i richiami del fratello o i drammatici eventi storici, quali la caduta della Repubblica di Ancona nel 1532. Pare tuttavia, ma non vi sono conferme, che proprio in quell'occasione Enrico Stracca-Merigge trovò la morte, quando si rivolse a un gruppo di armigeri pontifici con un sonoro "E nun me rompé i cujoni mentre che cago! O babaloni!". Quelli, sembra, si offesero e ne fecero un secondo Archimede, vittima della propria arte e concentrazione. Si leggano W. WUNDER, Stracca-Merigge: un ritratto, Monte San Vito-Schaffhausen 2004, nonché E. BRUGIAMOLINI, Misfatti papali nella Marca di Ancona, Strettura di Spoleto 1913.
Quale che sia la verità, è certo che Stracca-Merigge non fece in tempo e non ebbe mai voglia di raccogliere la propria saggezza; restano piccoli echi di lui solo in trattati specifici (cfr. AA. VV., El deritu comerciale e la cocchia de tu madre: giuristi dorici dal Medioevo a piazza Ugo Bassi, Ancona 1959). Il popolo, però, deve aver conservato il ricordo della sua luminosa figura fino a farne l'archetipo dello sfaccendato.
Altri, infine, obiettano a questa chiave di lettura affermando che straccamerigge è un termine di etimo più montano e contadino che anconetano e marinaro, e mettono semmai l'accento sulla possibile condivisione del lemma tra Marche e altre zone del centro Italia; non a caso, si sostiene, Eugenio Montale nel suo periodo giovanile e d'impronta stilnovista volle utilizzare il verbo "meriggiare" nella sua ben nota descrizione dell'ozio poetico postprandiale.
In ogni caso, qualunque sia la verità sulla provenienza del termine, esso si inserisce perfettamente - come proverbiale eccezione che conferma la regola - nel mondo marchigiano classico. Quest'ultimo, infatti, è costituito nella sostanza da una discendenza contadina, ossia in un'organizzazione in opere e ore e giorni, per parafrasare Esiodo; in questo senso, chi si attarda nell'ora meridiana sotto l'ombra rientra perfettamente, pur fuggendone, in questa civiltà. Dall'altro lato, quello della forma, abbiamo già più volte denunciato il gusto del sarcastico e del surreale che caratterizza l'indole marchigiana: e l'idea di uno in grado di stancare le ombre ci pare rientrare a pieno titolo in questa passione regionale.

* Dov'è.
** Perder tempo senza costrutto.

venerdì 16 dicembre 2011

Fasse magna' 'l cazzo da le mosche

Tra le più suggestive e notevoli formule proverbiali tuttora in uso nelle Marche, "farsi mangiare il cazzo dalle mosche" vale perdere un'occasione, restare di stucco ovvero con un palmo di naso; essa indica cioè la situazione di chi ha avuto un'opportunità e l'ha perduta, normalmente per eccesso di prudenza o per incapacità di decidere e di agire piuttosto che per un difetto nell'azione o per mancanze intrinseche. In altre parole, chi si fa mangiare il cazzo dalle mosche è uno che poteva tranquillamente raggiungere il traguardo prefissato: solo che s'è fermato, a un certo punto della sua rincorsa, e ha mancato per questo - a causa di un improvviso timore o di una costante accidia - di cogliere un frutto maturo e appetitoso che stava lì, poco più in là del braccio.
L'espressione si utilizza in una vasta gamma di situazioni e con intento sia descrittivo di un avvenimento ormai passato, sia a mo' di sprone per il futuro. Nel primo caso, ben si attaglia alla rievocazione di una partita andata storta; per esempio: "Non te crede, ché lora n'era brai pi gnè, sicché è rmasti diedro e ce spettaa; ma no' nvece de gi' ó* semo stadi tutto 'l tempo a sfregnetta' e alla fine se semo fatti magna' el cazzo da le mosche" (non credere chissà che: gli altri erano scarsi, perciò stavano rintanati dietro ad aspettarci; ma noi, invece di andare avanti, abbiamo perso tempo in giochetti e alla fine ci siamo trovati con un palmo di naso). Oppure, per citare un altro ambito caro ai più, un ragazzo dirà al proprio amico: "Ma pò sta' [può essere] nn'a vedi quella como te vara? Vacce a discorre, camina, que stae chi [a che pro resti qui] a fatte magna' 'l cazzo da le mosche?".
Benché si tiri in ballo prepotentemente l'organo sessuale maschile, non sfuggirà agli osservatori più attenti e acuti che la relazione logica e il tipo di ragionamento cui ci si richiama non è sessuale, o non lo è immediatamente e primariamente; è semmai alla fertilità e alla discendenza che si rinuncia lasciando che il proprio pene venga utilizzato come cibo per insetti, e non semplicemente a un coito (che, anzi, non è affatto prefigurato dalla locuzione). In senso traslato ma chiarissimo, dunque, si dipinge come sterile e incapace di produrre alcun tipo di conseguenza positiva una scelta, o piuttosto una mancanza di scelte, attribuita a colui che si vuol censurare con la colorita formula.
Sia quel sia, per spiegare la genesi storica dell'espressione è stato proposto da vari studiosi (tra gli altri, cfr. O. LAINZ, Monachesimo e omosessualità nell'alto Medioevo centroitalico, Köln 1904 e M. N. MININNI, Deus non vult: fiche schiaffeggiate e altri atti di vera fede, Mantova 1923) che si debba risalire alla nota vicenda dell'eremita Medoro, vissuto nel IV secolo dell'era cristiana. Costui, un uomo irsuto, peloso e scostante, come tale amatissimo dalle donne, si era ritirato a cercare l'ascesi in certi territori brulli e inospitali tra Sassoferrato (AN) e Pergola (PU). Qui, nel suo umilissimo cenobio condiviso con una famiglia di panacace**, veniva ogni giorno a trovarlo la nobildonna romana Livia Ingrifata Maxuma, la quale aggiungeva ai cesti di cibo e alle espressioni di ammirazione per la fede dell'anacoreta evidenti profferte sessuali (approfittando della permanenza in Arabia del marito, impegnato a combattere il tiranno Sorbetto alla testa della XXXII Legio "Solaris sed demens"). Impossibilitato ad accogliere tali profferte, ma non volendo d'altronde offendere le chiome corvine e gli occhi appassionati della matrona, Medoro non diceva nulla e restava soltanto sulla sua rupe, nudo e coperto di peli e sporco incrostato (la cosiddetta "susta").
Un bel giorno, tuttavia, proprio all'orario della visita di Livia, il cielo estivo si oscurò e ne calarono sciami e sciami di insetti mai visti prima: erano i giganteschi e voracissimi mosconi aramaici, costretti a lasciare le proprie sedi usuali dalla guerra tra il despota Sorbetto e i Romani, che aveva consumato e distrutto i raccolti. Le mosche circondarono perciò il malcapitato Medoro, attratte dalla sua nudità, e ne straziarono le parti molli; pochi minuti dopo quello che si ergeva di fronte a Livia era un uomo privo di genere, in un certo senso. "He isto dé [quanto] sae stado brao?" chiosò dunque la donna, "A la fine te s'ha magnado el cazzo le mosche. Te mpara a non risponde né scì né no, e a me a perde tempo cui ciambotti". Da parte sua Medoro interpretò l'avvenimento come un segno della volontà di Dio; più tardi, tuttavia, perse la fede e aprì uno spaccetto di panini miele e porcospino al passo di Scheggia. Si veda anche, a questo proposito, E. GRISTOSANTO (a cura di), Le tavole calde eugubine, Sant'Angelo in Vado 1960.
Studi più recenti pongono invece l'accento su una vicenda risalente ai primi anni del secolo scorso, quando nei pressi della frazione di Castelrosino di Jesi viveva la giovane coppia formata da Milia Ceppi e dal marito Nicola Piersantelli; costui, brav'uomo sotto tutti i punti di vista, era però affetto da una gravissima e quasi patologica forma di distrazione. Pare dunque che nella calda estate del 1908, in una mattinata afosa e priva di lavori agricoli, la giovane sposa abbia manifestato una pressante volontà di fare l'amore. Il buon Piersantelli avrebbe replicato che sì, ne aveva voglia anche lui; gli desse solo un minuto per andare al campo a pisciare (all'epoca, com'è noto, non esistevano i moderni servizi). Solo che, distratto come al solito, questi rimase cinque minuti buoni con la patta aperta a guardare l'orizzonte, fino al richiamo della moglie. Rientrato in casa, la povera Milia dovette constatare inorridita che la lunga permanenza all'aria afosa aveva richiamato intorno ai genitali del marito ogni genere di bestia volante; ragion per cui la donna rinunciò assolutamente a ogni proposito lubrico. A Piersantelli non rimase dunque che prendere atto, bofonchiando fra sé, che farsi mangiare il cazzo dalle mosche gli aveva fatto perdere una piacevole occasione. Con il tempo l'aneddoto, narrato all'osteria dal vicino mezzadro Latini (uomo di ben poca moralità ma di ottima vista), si diffuse, e l'espressione divenne proverbiale. Almeno questo è quel che sostiene Jean Pipeau, esponente illustre della scuola storica francese. Si veda J. PIPEAU, Le mà zozze de grascia: storia materiale della media Vallesina, Paris-Coppetella di Chiaravalle 1971.
In ogni caso, la formula resta viva e compresa ancora ai nostri giorni, avendo perduto ogni sua (eventuale) connotazione sessuale. Ne rimane piuttosto la sarcastica immediatezza, definibile in sintesi - ma senza tema di smentite - come tipica di una marchigianità profonda e verace.

* Oltre, in avanti.
** Donnole.

sabato 10 dicembre 2011

Un pezzo corre 'l ca', 'n pezzo corre el lepre

Espressione di evidente matrice contadina e portatrice perciò di una concezione del tempo sostanzialmente ciclica, essa rispecchia due caratteristiche che stanno alla base della civiltà marchigiana: da un lato il fatalismo quasi balcanico (non si deve d'altronde dimenticare l'apporto demografico e culturale che la regione Marche ebbe dall'emigrazione slava nel basso Medioevo), dall'altro una fiducia, che è a volte più misticheggiante che religiosa o cattolica in senso proprio, in una futura, necessaria giustizia non solo celeste, ma applicata già tra gli uomini e sulla terra.
Non a caso Glauco Maggioli, dottissimo traduttore e esegeta di romanzi russi per la piccola, coltissima casa editrice "Lo ràgheno* d'oro" di Barbara (AN), volle insierire nel suo commento a "Il maestro e Margherita" di Michail Bulgakov una riflessione su quel vago quanto promettente "Tutto sarà giusto", pronunciato da Voland in uno degli ultimi capitoli del capolavoro. Eccola: "Ora il procuratore di Gerusalemme, liberato della propria immane colpa, può correre gioiosamente con il proprio cane Banga, che per le lune di duemila anni ha condiviso incolpevole la pena del proprio padrone; adesso il cane balza e scatta, leggero. E si può ben dire, mutuando un detto popolare, che se finora ha corso la lepre, ora può correre il cane, e con esso librarsi a più alte sfere l'anima del quinto procuratore della Giudea" (G. MAGGIOLI, Saggi letterari e ricette delle crespelle, Barbara 1971).
L'utilizzo del modo di dire, nel parlato quotidiano, ha ovviamente meno a che fare con tali beghe teologiche: lo si pronuncerà invece in occasione di improvvisi rovesciamenti del destino ("He isto que j'è successo a lia? Discorrea discorrea dei fioli del'altri, che non era boni e non sapea fa', e adè j'è armasta pregna la fija". "Eh, ma tant'è cucì: 'n pezzo corre 'l ca', 'n pezzo corre el lepre...") o di fronte all'arroganza altrui ("E na madonna de' me tira el culo a vede a quelli che fa i grossi! Tocca che j'ardigo qualco'...". "Te 'n te ne pia': 'n pezzo corre el ca', 'n pezzo corre el lepre, toccherà a sta' zitti pure a lora"). Insomma, la formula si utilizza sia come auspicio fiducioso di cambiamento di un certo status, sia come prova a posteriori che le cose dovevano necessariamente mutare. Vi è insomma una certa carica filosofica, come detto: le cose devono cambiare perché devono, perché la vita ha un suo ciclo e non ammette eterne permanenze ed egemonie infinite.
Lo stesso Giacomo Leopardi, uno dei cervelli più raffinati prodotti dalle Marche e dall'Italia, fece una sera ricorso al modo di dire. Nel salotto di casa Leopardi, infatti, intorno al venerando padre, il conte Monaldo, stava allora infuriando una discussione filosofica tra i membri della famiglia, certi prelati invitati a cena, degli eruditi locali e un allevatore di tori (presente lì per puro caso ma deciso a dare il proprio contributo al dibattito): mentre questi discutevano, entrò nella stanza Giacomo, reduce da una delle proprie massacranti sessioni onanistiche, e gli fu immediatamente chiesto di spiegare in termini brevi e leggibili l'idea vichiana dei corsi e ricorsi e delle differenti età delle civiltà, sulle quali appunto l'uditorio si confrontava. "Que ho da divve?", scosse le spalle il gobbetto, "Miga 'n è difficile: 'n pezzo corre 'l ca', 'n pezzo corre 'l lepre. E adè scusademe, tocca che troo na rima cu sole, ché quele cazzo de viole non è de stagio'..." (quella sera stessa Giacomo fu pestato con la cinghia dal padre; evento traumatico ma utile, in un certo senso, perché gli diede occasione di scrivere un lamento in ottave strambotte. Questo ed altre interessanti aneddoti nel prezioso lavoro di ERMES LATINI, I grandi felini nella letteratura italiana, Montalto Marche 1921).
V'è da dire, tuttavia, che - forse proprio grazie a Giacomo Leopardi - la locuzione ha una sua presenza e vitalità anche nelle lingue straniere, e non è confinata al solo ambito colloquiale e familiare. Abbastanza recentemente, ad esempio, nella "Zeitschrift für Politikwissenschaft" (Rivista di scienza politica) dell'Università di Mannhein è apparso il contributo del professor Otto Nurdiewurst, luminare nel campo degli studi geo-strategici, nel quale si demolisce la teoria di Francis Fukuyama sulla fine della storia. Piuttosto noto è il lapidario giudizio verso la fine dell'articolo: "Der Amerikaner beschreibt also die geschichtliche Evolution als ein Athletenrennen mit einem bestimmten Ziel, nach welchem das Rennen eigentlich sinnlos wird... Doch Fukuyama hat vergessen, dass die Geschichte bei dem Ring eines Stadion rennt, und außerdem ähnlicher einem Staffellauf ist. Deshalb läuft der Hund manchmal und manchmal der Hase; und die Geschichte, sowie der Wettkampf, ist nicht am Ende" ("L'americano descrive dunque l'evoluzione storica come una corsa atletica con un traguardo stabilito, dopo il quale la corsa diviene per sua natura inutile... Fukuyama ha tuttavia dimenticato che la storia corre sull'anello di uno stadio ed è inoltre più simile a una staffetta. Perciò a volte corre il cane e a volte la lepre; e la storia, così come la competizione, non è finita". Vedi anche O. NURDIEWURST, Miscellanea di insulti stentorei su temi troppo serî per essere lasciati al patetico giudizio dei non europei, ed. it., San Benedetto del Tronto 2009).
D'altra parte, è anche possibile che l'espressione sia patrimonio della civiltà classica europea da tempi remotissimi. Lo prova il commento al Vangelo di Giovanni, ritrovato qualche tempo fa nelle cantine vaticane accanto agli otri con cui il vino di Morro d'Alba veniva spedito ai Pontefici. L'autore di tale commento, conosciuto dagli addetti ai lavori semplicemente come Anonimo marchigiano, riflette sul ben noto Prologo del verbo, proponendo una correzione all'incipit. A suo dire, infatti, "Non ha senso veruno che al principio fosse il verbo (Ἐν ἀρχῇ ἦν ὁ λόγος), dacché siffatto verbo non l'ha veduto niuno, né ai campi, né sulle piagge sui monti, né in città; e nemmanco se ne sente parlare nelle croniche d'oltremare e di Barbaria, e niuno saprebbe descriverlo... Molto meglio sarebbe, a mio giudizio, supporre che si abbia a che fare qui con la mera svista d'uno scriba stanco, e che all'inizio sul prato del Signore zompettasse piuttosto un lepre (Ἐν ἀρχῇ ἦν ὁ λαγώς): poi Domine Dio avrà creato il cane, sibbene Giovanni non lo scrive, ma egualmente si comprende. E da allora corrono cane e lepre, siccome vediamo anche oggi, e la vita dell'uomo non che è pendolo fra tali due corse...". Cfr. anche AA. VV., L'ubriachezza molesta come anticamera del misticismo, Belvedere Ostrense-Stuttgart 1977.
Sia come sia, che l'esistenza e l'esperienza umana si strutturino come un ciclo, in cui ad ognuno è comunque data un'opportunità, è convinzione comune nello "way of life" marchigiano. Motivo per cui anche la bonaria e sorridente inazione non è sempre rassegnazione, ma è sovente fiduciosa attesa di un diritto naturale.


* Lucertola.

venerdì 2 dicembre 2011

Da' 'l cazzo a le vecchie

"Dare il cazzo alle vecchie", non c'è neanche bisogno di spiegarlo, significa fare qualcosa di inutile, assurdo e insensato, che non conduce a null'altro che a una improficua perdita di tempo e d'energia. In una società agricola e scandita da ritmi e da riti naturali, com'è stata fino a pochi decenni fa quella marchigiana (e a quest'epoca pre-industriale si riferiscono d'altronde i detti riportati in questa sede), nulla appariva più evidentemente vano e futile che sfidare le leggi del tempo e delle stagioni. In questo senso, volendo rendere l'idea di un atto destinato fin da subito a rivelarsi privo di effetti, nulla pareva più adatto e immediato del paragone con una copula con donne anziane - copula, perciò, necessariamente sterile.
L'espressione, proferita in tono rassegnato di fronte alla testardaggine altrui o più spesso esclamata forte, lasciando trasparire tutto il proprio sarcasmo, si oppone perciò alle intenzioni e ai progetti percepiti come improbabili, inani, inefficaci. "Vara che grasciaro hai fatto lì per terra, que madonna cj he 'rbaltado? Adè co que ce pulimo?", dirà ad esempio un ragazzino all'altro, su un campetto in piena estate, notando che l'altro ha fatto cadere sul poroso sintetico una qualche bevanda zuccherosa. "Te 'n te pruccupa', ce sfrego cu l'acqua". "Ma que acqua... è come da' 'l cazzo a le vecchie". In circostanze simili, un ragazzo della comitiva proromperà inevitabilmente nella stessa conclusione quando gli altri proveranno, utilizzando certi sassettini piccoli e leggeri, a far cadere un pallone imprigionato tra le fronde foltissime di un qualche albero secolare: "Eh, ma chi è come da' el cazzo a le vecchie: o artroamo qualco' che je fa oppure sarà mejo gi' al negozio a compra' n'antro palló...". D'altra parte, al di là di questi esempi piuttosto di basso profilo, si ha un utilizzo anche elevato del modo di dire, perfettamente flessibile e adattabile a ogni contesto. Ad esempio, un analista economico potrà dire al proprio vicino di scrivania: "He 'nteso? L'inflazió è gida giù de n'antro 0,2%, sto mese". "E scì, ma cu le paghe bloccade je fa com'el cazzo a le vecchie". Questo tanto per essere chiari.
Da dove venga l'espressione è questione controversa. Nonostante l'apparenza, c'è chi ha sostenuto che per "cazzo" non si debba intendere o non si dovesse intendere all'inizio il banalissimo organo sessuale maschile, e che non sia l'ambito sessuale quello alla base del modo di dire. In particolare, il Miroklose (Brastislav Pulisan Miroklose, luminare moravo di fine '800; cacciato dagli atenei imperiali e caduto in povertà per le sue posizioni anti-austriache, dovette vendere il proprio secondo nome - che era in origine Brüno - a un'azienda di detersivi in polvere) è stato il capofila degli "antipenisti", ossia di coloro i quali si sono rifiutati di assecondare l'origine sessuale della locuzione. Nel suo fondamentale Storia dei popoli minori e di quelli di cui anche a me frega il giusto (Pressburg 1882), Miroklose riporta le dicerie avvinazzate di alcuni abitanti della parte nordoccidentale del comune di Arcevia e ne deduce che in tempi successivi alla battaglia del Sentinum (295 a.C.) vi sia stato da qualche parte tra le odierne Ripalta e San Ginesio un episodio di resistenza dell'elemento gallico ai romani trionfanti. Un manipolo di Senoni si sarebbe infatti asserragliato in un villaggio sito in posizione dominante, rifiutando la resa alle legioni; tuttavia, già dopo qualche settimana di assedio si sarebbe posto il problema delle scarse vettovaglie.
A questo punto, come a Numanzia in seguito (anche in quel caso di fronte all'imperialismo romano), i Celti dovettero dibattere sulla possibilità o meno di continuare la lotta. Qualcuno dei vecchi, così almeno riferivano i racconti tradizionali arceviesi, avrebbe proposto la resa, essendo ormai impossibile la vittoria; ma un giovane guerriero, Tautoviste (o Guido, a seconda delle versioni), volle in quella circostanza dire la propria, e proclamò che bisognava invece resistere, perché non c'era da aspettarsi clemenza e lealtà dai romani. Per quanto riguardava il cibo, continuò Tautoviste (o Guido), non c'era che da razionarlo, riservandolo tutto ai guerrieri; non era il caso, infatti, che si sprecasse formaggio e carne salata per le donne e i bambini, né che si scialacquassero le scorte di farina distribuendole anche alle anziane vedove.
Proprio qui entra in gioco l'interpretazione rivoluzionaria del Miroklose, il quale ritiene che il cazzo da dare alle vecchie sia in realtà da leggere in senso metaforico, sia che si voglia intendere con l'organo sessuale un generico datore di vita, sia che lo si identifichi con le proteine che, come abbastanza noto, esso produce in una certa quantità, e dunque con del cibo di elevato valore nutritivo. A suo modo di vedere, Tautoviste (o Guido) avrebbe gridato semplicemente che non si doveva dare sostentamento alle inutili vecchie; questa parola d'ordine si sarebbe poi mutata nei secoli, per progressiva prossimità semantica o a causa della nota rozzezza dei campagnoli, in un invito a rendersi conto dell'assurdità del donare il pene alle anziane.
Una lettura simile ma molto meno metaforica la presenta invece una recente ricerca tedesca, realizzata dall'Università di Jena (vedi G. NICHTSOMAGER-H. ALLESFRESSER, E allora mangia la merda: i cibi degli umili dall'antichità alla Rivoluzione Industriale, Jena-Lucrezia di Cartoceto 2006) grazie a finanziamenti trovati per terra, evidentemente lasciati lì da qualche cittadino distratto ma benefattore. Secondo i due professori tedeschi, che hanno esaminato ricette, testimonianze e rutti aromatizzati provenienti da tutta Europa, esisteva nella cultura etrusca ed è probabilmente passata ai Galli Senoni per il tramite dei commerci appenninici o dell'alleanza antiromana un'energetica torta al miele e alle castagne, chiamata ch'atso o q'atso nel linguaggio misterioso di quegli antichi abitanti dell'Italia tirrenica. Questa potentissima delizia, vera bomba calorica di difficile paragone con altri cibi dell'epoca, fu adottata con entusiasmo dai Senoni e messa a disposizione in primis dei guerrieri, i quali avevano ovviamente maggior bisogno di energie da destinare alla scontro e al mantenimento delle forze nelle marce e negli assedi. Dare il q'atso alle vecchie, perciò, voleva dire far qualcosa di non soltanto inaudito e quasi sacrilego, ma anche di perfettamente inutile, giacché le vecchie non avrebbero avuto alcun bisogno di tutta quell'energia e quella forza, che andava invece indirizzata in altre direzioni. Dall'ambito militare e proprio la formula si allargò rapidamente a quello vasto e metaforico, fino a diventare uno dei modi di dire più tipici dell'area pedemontana dell'anconetano.
Infine, accanto a queste ipotesi caratterizzate da estrema pignoleria e da un'indagine spinta nei dettagli, sta il racconto quasi fantastorico suggerito da Remo Scortichini, produttore di barbabietole nell'area della Vallesina e studioso autodidatta, noto per il saggio L'elmo del guerriero di Capestrano e i cappelletti. Evidenze storiche nella pasta fresca marchigiana, Roma-Bari-Scisciano 1955. Costui, nel suo comunque godibilissimo Motivi morali e storici del maschilismo, o dei danni delle donne, Monteroberto 1964, afferma che in un certo periodo del IV secolo a.C. l'assenza dei capi e di molti guerrieri - impegnati in razzie o come mercenari per Siracusa - abbia lasciato i villaggi gallici della valle del Misa in preda a una crisi di potere, che sarebbe poi stata colmata da un ritorno al matriarcato: in questa fase le donne anziane, detentrici dell'autorità per via della propria esperienza e competenza magica e sacrale, avrebbero costretto le più giovani a cedere mariti e compagni, costretti perciò ad accoppiarsi solo con le più mature. Da questa decisione sarebbe poi ovviamente discesa una pericolosa crisi demografica, nonché un grave scontro tra donne giovani e anziane che avrebbe infine portato al rovesciamento del regime. In seguito quel periodo di follia sarebbe stato ricordato solo indirettamente e per richiami nascosti; uno di questi sarebbe appunto l'evocazione di quando si dava il cazzo alle vecchie quale momento infausto e dannoso per la società Senone. Le prove portate da Scortichini non sembrano tuttavia convincenti; ma, di certo, la diffusione del modo di dire e la sua vitalità fino al giorno d'oggi fanno pensare che, chissà come e quando, vi sia stato da qualche parte tra l'Adriatico e gli Appennini un evento davvero grave e traumatico, tale da non perdersi nell'inconscio a distanza di millenni.