venerdì 16 dicembre 2011

Fasse magna' 'l cazzo da le mosche

Tra le più suggestive e notevoli formule proverbiali tuttora in uso nelle Marche, "farsi mangiare il cazzo dalle mosche" vale perdere un'occasione, restare di stucco ovvero con un palmo di naso; essa indica cioè la situazione di chi ha avuto un'opportunità e l'ha perduta, normalmente per eccesso di prudenza o per incapacità di decidere e di agire piuttosto che per un difetto nell'azione o per mancanze intrinseche. In altre parole, chi si fa mangiare il cazzo dalle mosche è uno che poteva tranquillamente raggiungere il traguardo prefissato: solo che s'è fermato, a un certo punto della sua rincorsa, e ha mancato per questo - a causa di un improvviso timore o di una costante accidia - di cogliere un frutto maturo e appetitoso che stava lì, poco più in là del braccio.
L'espressione si utilizza in una vasta gamma di situazioni e con intento sia descrittivo di un avvenimento ormai passato, sia a mo' di sprone per il futuro. Nel primo caso, ben si attaglia alla rievocazione di una partita andata storta; per esempio: "Non te crede, ché lora n'era brai pi gnè, sicché è rmasti diedro e ce spettaa; ma no' nvece de gi' ó* semo stadi tutto 'l tempo a sfregnetta' e alla fine se semo fatti magna' el cazzo da le mosche" (non credere chissà che: gli altri erano scarsi, perciò stavano rintanati dietro ad aspettarci; ma noi, invece di andare avanti, abbiamo perso tempo in giochetti e alla fine ci siamo trovati con un palmo di naso). Oppure, per citare un altro ambito caro ai più, un ragazzo dirà al proprio amico: "Ma pò sta' [può essere] nn'a vedi quella como te vara? Vacce a discorre, camina, que stae chi [a che pro resti qui] a fatte magna' 'l cazzo da le mosche?".
Benché si tiri in ballo prepotentemente l'organo sessuale maschile, non sfuggirà agli osservatori più attenti e acuti che la relazione logica e il tipo di ragionamento cui ci si richiama non è sessuale, o non lo è immediatamente e primariamente; è semmai alla fertilità e alla discendenza che si rinuncia lasciando che il proprio pene venga utilizzato come cibo per insetti, e non semplicemente a un coito (che, anzi, non è affatto prefigurato dalla locuzione). In senso traslato ma chiarissimo, dunque, si dipinge come sterile e incapace di produrre alcun tipo di conseguenza positiva una scelta, o piuttosto una mancanza di scelte, attribuita a colui che si vuol censurare con la colorita formula.
Sia quel sia, per spiegare la genesi storica dell'espressione è stato proposto da vari studiosi (tra gli altri, cfr. O. LAINZ, Monachesimo e omosessualità nell'alto Medioevo centroitalico, Köln 1904 e M. N. MININNI, Deus non vult: fiche schiaffeggiate e altri atti di vera fede, Mantova 1923) che si debba risalire alla nota vicenda dell'eremita Medoro, vissuto nel IV secolo dell'era cristiana. Costui, un uomo irsuto, peloso e scostante, come tale amatissimo dalle donne, si era ritirato a cercare l'ascesi in certi territori brulli e inospitali tra Sassoferrato (AN) e Pergola (PU). Qui, nel suo umilissimo cenobio condiviso con una famiglia di panacace**, veniva ogni giorno a trovarlo la nobildonna romana Livia Ingrifata Maxuma, la quale aggiungeva ai cesti di cibo e alle espressioni di ammirazione per la fede dell'anacoreta evidenti profferte sessuali (approfittando della permanenza in Arabia del marito, impegnato a combattere il tiranno Sorbetto alla testa della XXXII Legio "Solaris sed demens"). Impossibilitato ad accogliere tali profferte, ma non volendo d'altronde offendere le chiome corvine e gli occhi appassionati della matrona, Medoro non diceva nulla e restava soltanto sulla sua rupe, nudo e coperto di peli e sporco incrostato (la cosiddetta "susta").
Un bel giorno, tuttavia, proprio all'orario della visita di Livia, il cielo estivo si oscurò e ne calarono sciami e sciami di insetti mai visti prima: erano i giganteschi e voracissimi mosconi aramaici, costretti a lasciare le proprie sedi usuali dalla guerra tra il despota Sorbetto e i Romani, che aveva consumato e distrutto i raccolti. Le mosche circondarono perciò il malcapitato Medoro, attratte dalla sua nudità, e ne straziarono le parti molli; pochi minuti dopo quello che si ergeva di fronte a Livia era un uomo privo di genere, in un certo senso. "He isto dé [quanto] sae stado brao?" chiosò dunque la donna, "A la fine te s'ha magnado el cazzo le mosche. Te mpara a non risponde né scì né no, e a me a perde tempo cui ciambotti". Da parte sua Medoro interpretò l'avvenimento come un segno della volontà di Dio; più tardi, tuttavia, perse la fede e aprì uno spaccetto di panini miele e porcospino al passo di Scheggia. Si veda anche, a questo proposito, E. GRISTOSANTO (a cura di), Le tavole calde eugubine, Sant'Angelo in Vado 1960.
Studi più recenti pongono invece l'accento su una vicenda risalente ai primi anni del secolo scorso, quando nei pressi della frazione di Castelrosino di Jesi viveva la giovane coppia formata da Milia Ceppi e dal marito Nicola Piersantelli; costui, brav'uomo sotto tutti i punti di vista, era però affetto da una gravissima e quasi patologica forma di distrazione. Pare dunque che nella calda estate del 1908, in una mattinata afosa e priva di lavori agricoli, la giovane sposa abbia manifestato una pressante volontà di fare l'amore. Il buon Piersantelli avrebbe replicato che sì, ne aveva voglia anche lui; gli desse solo un minuto per andare al campo a pisciare (all'epoca, com'è noto, non esistevano i moderni servizi). Solo che, distratto come al solito, questi rimase cinque minuti buoni con la patta aperta a guardare l'orizzonte, fino al richiamo della moglie. Rientrato in casa, la povera Milia dovette constatare inorridita che la lunga permanenza all'aria afosa aveva richiamato intorno ai genitali del marito ogni genere di bestia volante; ragion per cui la donna rinunciò assolutamente a ogni proposito lubrico. A Piersantelli non rimase dunque che prendere atto, bofonchiando fra sé, che farsi mangiare il cazzo dalle mosche gli aveva fatto perdere una piacevole occasione. Con il tempo l'aneddoto, narrato all'osteria dal vicino mezzadro Latini (uomo di ben poca moralità ma di ottima vista), si diffuse, e l'espressione divenne proverbiale. Almeno questo è quel che sostiene Jean Pipeau, esponente illustre della scuola storica francese. Si veda J. PIPEAU, Le mà zozze de grascia: storia materiale della media Vallesina, Paris-Coppetella di Chiaravalle 1971.
In ogni caso, la formula resta viva e compresa ancora ai nostri giorni, avendo perduto ogni sua (eventuale) connotazione sessuale. Ne rimane piuttosto la sarcastica immediatezza, definibile in sintesi - ma senza tema di smentite - come tipica di una marchigianità profonda e verace.

* Oltre, in avanti.
** Donnole.

3 commenti:

  1. epperò andrebbe approfondita l'etimologia di ciambotto, e delle varianti in altre parti delle marche, come lardellu, sarciccione, saccoccione :-D

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  2. Beh, ciambotto (de fosso) ha una sua origine propria e andrebbe studiato da sé. Semmai nel capitolo su epiteti e animali.

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