mercoledì 7 novembre 2012

Come l'osso al ca'


Espressione di significato leggermente bivalente, ma riconducibile comunque a uno stesso ambito, «como [o "come"] l'osso al ca'» indica da un lato l'appropriatezza di un'attribuzione, dall'altro la necessità di completare in una determinata maniera un quadro che manchi di un elemento o che appaia in qualche modo errata.
"Ce dice ste scarpe cul vestito?", domanda ad esempio la donna marchigiana della buona società al marito, qualche minuto prima di recarsi a teatro (sono già in ritardo e l'uomo sbuffa). "Ce chioppa*", risponderà l'uomo, senza più nascondere la propria insofferenza, "come l'osso al ca'...". La donna, ovviamente, per nulla rassicurata da un giudizio tanto superficiale, esiterà di nuovo davanti allo specchio, vagamente maledicendo il giorno in cui ha sposato quel vagabondo; questo, tuttavia, non è fatto peculiarmente marchigiano ed esula dunque dalla nostra ricerca.
Molto spesso la formula è introdotta, per motivi di rima ed armonia, dalla frasetta "Ce sta"; poniamo il caso di due amici: il primo, che ha da poco ristrutturato una casetta, invita l'altro a bere una bottiglia nell'ambiente ancora spoglio. "Chi me sa ce 'ojo fa' lo studio", indicherà quindi, "Scinnò 'n ce fo gnè, ce lasso du poltrone e 'n giradischi e ce veno a sciora'**". "Ce sta", commenterà secco l'altro, già in preda ai fumi dell'alcool (ha colpevolmente dimenticato di pranzare); per poi completare la frase, dopo qualche secondo di pesca infruttuosa nella memoria: "...Come l'osso al ca'!".
Sembra naturale e non ha bisogno di grandi spiegazioni l'accostamento fra l'ovvia affinità tra cane e osso, da un lato, e una situazione, un paragone, un'attribuzione ben riuscita o ben pensata. Il quesito, invece, riguarda tempi e modi della nascita o dell'arrivo della formula in seno alla comunità marchigiana; quando e come, cioè, i nostri antenati hanno cominciato a utilizzare questa frase fatta che a noi oggi pare tanto naturale e istintiva.
Taluni, sulla scorta della grande autorità del Rubamazzo (Edgardo Sebastopoli Rubamazzo, latinista di enorme fama a metà dell'Ottocento; poi luogotenente del brigante Crocco, infine di nuovo latinista dopo i necessari chiarimenti con la giustizia), hanno avvalorato l'origine antica e in particolare latina della formuletta.
Essa doveva far parte di un nutrito gruppo di sententiae pensate per l'educazione dell'infanzia e della gioventù, passate pian piano in proverbio e divenute saggezza popolare e non più generazione. L'originale utilizzo pedagogico sarebbe testimoniato dalla struttura in rima della frase, che all'epoca doveva suonare: "Hic est mos/ tamquam cani os" (così si fa/ come l'osso al ca'). La frasettina serviva cioè ad ammaestrare i bambini e a sottolinearne i comportamenti corretti; il passaggio all'ambito degli adulti, magari mediato prima da un atteggiamento scherzoso, poi perdutosi col tempo dev'essere parso naturale. Così almeno sostiene il citato Rubamazzo nelle sue Divagazioni sulla lingua latina a margine di un bivacco di legittimisti (Tunisi 1864), volume a suo tempo proibito in Italia per via di una certa propaganda filoborbonica che lo pervade.
Un allievo del Rubamazzo, Ettore Puzza, centromediano del Genoa Cricket and Football Club e latinista almeno pari al maestro, volle precisare l'ipotesi del Rubamazzo. Secondo questa variante, la formuletta avrebbe sì radici latine, ma queste non affonderebbero nella classicità, bensì nel latino medievale; secondo Puzza, infatti, sarebbe stato un monaco di Fonte Avellana a vergare nel dodicesimo secolo una serie di commentari e di brevi note che, a partire dalla dottrina allora in voga del Bellum Iustum, tratteggiavano l'Homo Iustus, la Mulier Iusta, la Domus Iusta, ecc., insomma trattavano tutti gli ambiti della vita domestica e dell'esperienza umana. Fra gli altri manualetti di comportamento si ricorda anche quello dedicato al Canis Iustus, il quale avrebbe meritato l'Os Iustum. Questi insegnamenti sarebbero stati compresi in maniera solo parziale e semplificata dai contadini e dagli artigiani dei dintorni, e appunto da una corruzione della dottrina sarebbe nato in seguito il "Cani os", mutatosi poi in volgare nell'osso al ca'. Cfr. E. PUZZA, Ma allora non avete capito un cazzo. Il Medioevo frainteso, Sant'Ippolito 1900.
Assai diversa e rivoluzionaria è invece l'interpretazione di Gianni Sgnaolo, storico del movimento operaio, filosofo ed esteta, meglio noto per una lunga serie di conquiste femminili nel jet-set (egli utilizza la vecchia e collaudata tattica della logorrea ipnotica; dopo sei-otto ore di chiacchiere pesanti, ma in realtà inconsistenti e prive di concetti, la vittima è incapace di pensiero razionale e pronta ad accettare la corte del barbuto viveur). Secondo Sgnaolo, il modo di dire è recente, per la precisione ottocentesco; esso sarebbe stato messo in voga da certi liberali senigalliesi di ritorno dall'Ungheria, dove avevano combattuto di fianco a Kossuth. Nei decenni successivi sarebbe stato poi fatto proprio dal nascente movimento operaio della zona. L'osso cui si fa riferimento, stando a questa lettura, non sono altro che le reliquie dei santi portate in processione per le città marchigiane ancora impregnate di spirito papalino. Gli anticlericali della zona erano dunque soliti presenziare alle processioni e ad altre occasioni religiose e, facendo mostra di parlare d'altro, commentare ad alta voce "Ce sta... come l'osso al ca'!", con i menti rivolti ai venerabili ossicini In un paio di casi, anzi, il confronto era degenerato in rissa aperta, con il tentativo da parte delle frange estreme di rubare e profanare le reliquie. Si veda al proposito AA. VV., Risse, bambini smarriti e furti di porchetta: le feste del popolo nelle Marche postunitarie, Montegranaro 1976 (con il contributo dell'associazione produttori di tomaie). Per le tesi dello Sgnaolo, invece, secondo cui il passaggio in proverbio di quella formula radicale avviene nel momento della pacificazione post-bellica e dell'articolo 7 della Costituzione, si legga Preti di merda: la maturazione del sentimento politico fra Valmisa e Vallesina, in "Quaderni storico-estetici proletari", 2/XIII, Passo Ripe 1989.
Infine, l'ultima interpretazione, più fantasiosa, chiama in causa un certo Giovanni Coloccini, nato nell'Ottocento a San Paolo di Jesi. Costui, uomo inquieto, avrebbe fatto svariatissimi mestieri in giro per l'Europa e militato sotto diverse bandiere, finché, sul finire del secolo, non si sarebbe trovato in Egitto al seguito del noto archeologo prussiano Heinz Von Kliechingen-Paccasassi. Qui avrebbe partecipato a una sfrenata corsa all'antichità egizia, con la scoperta di diverse tombe e in particolare della magnifica mummia del toro Apis, accompagnata da quella del custode Giampiero. Il buon Coloccini, tuttavia, non avrebbe mai colto in profondità l'essenza della civiltà egizia, che pure lo affascinava; e, rientrato in patria, i suoi tentativi di spiegarne la grandezza ad amici e vicini di casa non sarebbero giunti a buon fine, anche per le carenze retoriche dello stesso Coloccini.
L'unica cosa che che filtrava dai suoi discorsi sconnessi, infatti, era la contiguità fra morte, cadaveri e Ka (qualsiasi cosa fosse); pareva anzi che fra ossa dei morti e Ka ci fosse una relazione inscindibile, da cui si sviluppò in paese e nella vicina Staffolo la costumanza di inserire nella chiosa dei discorsi "come l'osso al Ka". In seguito, si perse la memoria di Coloccini e dei suoi viaggi; ma il suo modo di dire, pur frainteso, vive e prospera.
Interrogato su questa apparentemente implausibile ipotesi, pare che Theodor Sehrfickbar, decano dei linguisti tedeschi, abbia risposto: "Ich sehe einen Bund... Wie den Knochen dem Hund" (ci vedo un legame... Come l'osso al cane). Oppure anche questa è un'invenzione recente o una trovata simpatica (cfr. H. BUCHWALD, Studiosi germanici al Carnevale di Fano, o dello zucchero filato sulla Tavola Peutingeriana, ed. it., San Costanzo 1999).


* Lett. "scoppia"; in gergo, vale "ci sta a pennello".
** Sciora' significa in origine uscire, spandersi, allargarsi; è inoltre tipicamente usato per lo spurgare delle olive sotto sale o per la simile necessità degli ubriachi di mettersi all'aria fredda per riprendersi. In questo caso significa "rilassarsi".

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