venerdì 11 ottobre 2013

Mette el carro al sole

Espressione singolare e tipicamente marchigiana, nonché di non immediata comprensione, "mette el carro al sole" indica nella tradizione campagnola (ma tale formula viene ancora usata dai discendenti inurbati di quei contadini) il momento in cui ci si libera finalmente da ogni preoccupazione e si incomincia a godere di una certa prosperità economica e finanziaria e, in senso più ampio, di una tranquillità esistenziale.
Chi mette il carro al sole ha un futuro assicurato; non ha che da riposarsi e godersi la vita che gli resta, e guardare l'orizzonte sconfinato con un sorriso altrettanto privo di limiti. Colui che - poniamo - sposa la figlia di un industriale, ed entra così in una casa du che i guadri' è fitti, mette il carro al sole; il liceale che riceve una serie di voti alti, quando manca ormai poco alla fine dell'anno scolastico e nulla può più macchiare la sua media, ha messo il carro al sole; lo studioso che riceve inviti a conferenze prestigiose all'estero - el paga per gi' o' a discorre -, nonché proposte di cattedre e borse di studio da mezzo mondo, ha messo il carro al sole. "Mettere il carro al sole", dunque, sottintende una raggiunta condizione di serenità e fiducia, e la sostanziale irrevocabilità o comunque estrema stabilità di tale stato di cose.
Ma da dove viene - è ciò che dobbiamo chiederci noi linguisti o quel che è - questa espressione? Quale il suo senso letterale, etimologico, storico (quello figurato l'abbiamo appena spiegato)? La prima ipotesi è di carattere storico ed è stata presentata già nei secoli passati da numerosi studiosi; si può dire anzi che sia la spiegazione usualmente fornita. Prendiamo ad esempio l'abate Birrozzi (Eschimo Fugardo Birrozzi, vescovo di Fossombrone a metà del XVII secolo e primo diffusore del gioco dei racchettoni nell'entroterra marchigiano); questi scrisse, nella sua Antiquitas marchiana ex ore ipsa marchianorum, sive nos nobis loquimur et nos non intellegimus (Amsterdam 1662): "Non havvi dubbio, a me sembra, che quando giunsero alla nostra Italia e ancora meglio alle nostre Marche que' barbari che poi si sparsero per monti e piani, recando seco donne e figlioli et bestiame grande e picciolo che era loro unica vettovaglia et arte, giacché nulla sapevano di coltivazioni in quel tempo et nulla cavavano dalla terra ne' loro lande frigide e poco atte al grano, uva et altre piante da manducazione, allora parve loro sì gran cosa fermare alfine que' carri, che erano loro consuetudine e loro case, al sole delle nostre contrade. E sì pensarono, io nol so, ché non vi fui, ma parmi sicuro, che tutte loro premure e inquietudini terminavansi con l'haver aquistato terreni solatii et aprichi e che però mai più faticherebbero a procurarsi il vivere... Sbagliavano, come poi videro essi stessi, ma fu il loro sbaglio comprensibile; e restò nel dire comune de' Marchiani oggipure quel porre il carro al sole, per affermare che mai più si temerebbero le asprezze della vita e che si è in tutta parte soddisfatti, come sentivansi soddisfatti Galli o Langobardi che primi posero piede in quello che pristinamente chiamavasi Piceno (...)".
Nei decenni e secoli successivi questa interpretazione fu confermata e arricchita da molti altri linguisti e storiografi ecclesiastici e laici; si ricorda ad esempio il garibaldino Pietrino Fanò, orbato di una gamba, di un braccio e di un occhio a Calatafimi dalla furia borbonica mentre era incastrato in una ringhiera, e poi senatore del regno, il quale mostrò che non a caso il detto utilizza il termine "carro": sorta di italianismo nobile, per essere chiari, al posto del più normale e ruspante biroccio. Ciò si dovrebbe spiegare, a suo dire, con la circostanza che appunto ci si riferisce nel detto non al carretto da lavoro di tutti i giorni, ma ai grandi carri coperti di pelli su cui si muovevano i popoli germanici (vedi P. FANÒ, La patria spiegata ai fanciulli e agli infelici, e boja chi non la capisce, Civitella del Tronto 1861). Questa teoria, ad ogni modo, è quella a tutt'oggi prevalente e quella cui si affidano di solito gli artigiani del pavè, i cartai fabrianesi, gli ultras del Fano e la popolazione marchigiana in generale.
Più recentemente, tuttavia, sono state avanzate altre proposte. Sulla scorta delle notevoli scoperte archeologiche effettuate a Cartoceto di Pergola, a Castelleone di Suasa e in altri luoghi del centro-nord della regione, certi storici hanno voluto collegare la prosperità della zona a una prima forma di industria del legno e del mobile, che poi si sarebbe sviluppata vigorosamente nell'età contemporanea. Più precisamente, l'archeologo svizzero Torsten Barnetta ritiene che l'economia di intere cittadine si reggesse sulle commesse, imperiali e di privati, per la fornitura di manufatti in legno di ogni genere. La capacità dei maestri marangoni sarebbe stata tale da ingenerare la credenza (carpenteria-credenza, sì. Si scusi il bisticcio) per cui quei falegnami avrebbero costruito perfino il carro su cui il Sole, come noto, solcava il cielo per i pagani. E per quel prestigioso incarico sarebbero stati ripagati con tale generosità che si disse pure che "mettere il carro al sole" avrebbe permesso loro di non lavorare mai più. Nei secoli, poi, si perse l'origine precisa del detto, che tuttavia rimase come sinonimo di raggiungimento di una fortuna sicura (tale tesi è consultabile in T. BARNETTA, Lebensbaum in römischen Marken, in AA. VV., Neue, zahlreiche Gründe, um Italien einzufallen, Zürich-Lübeck-Carpegna 2008).
Infine esiste una terza ipotesi, assai minoritaria ma comunque significativa, basata su premesse simili a quelle appena presentate ma totalmente rovesciata di senso. Essa fu partorita alla fine dell'Ottocento negli ambienti dell'anarcosocialismo, notoriamente forte nel senigalliese; fu Ermete Mancinelli, fabbro, poeta e storico popolare, a scrivere sulle colonne del "Lampo miseno", periodico che egli curava pressoché interamente, che non si trattava e non si sarebbe mai potuto trattare di mettere carri al sole, giacché a questo i potenti avevano aggiogato già all'inizio della storia umana una pesante coda di arbitrio e di schiavitù (si intendeva, cioè, che la giornata scandiva per i proletari il tempo della fatica, di cui peraltro non godevano generalmente i frutti). Non c'era dunque neanche da pensare di rimettersi a fare carri e di attaccarli a chissà che, in attesa di ricompense che al massimo sarebbero state servili ed umilianti; bensì - così si leggeva nel Prometeo, rubrichetta di cultura e storia sempre vergata da Mancinelli - meglio sarebbe stato manomettere quel carro (leggasi le annate 1898-1899 del "Lampo miseno", edite a Senigallia e ristampate fra Ponte Rio e Maastricht nel 1974). Anzi, di sicuro, quella era - stando a Mancinelli - l'espressione originale coniata dagli schiavi dei latifondisti romani: il sole avrebbe rischiarato un mondo giusto e bello soltanto quando non avesse trascinato più con sé e affibbiato all'umanità dolente catene tanto gravose... "Manomette el carro al sole" divenne perciò una parola d'ordine diffusa e amata; che poi l'etimologia fosse credibile o fantastica, questo conta poco: conta che fu a questo grido che si registrarono diversi assalti alle fabbriche e diversi episodi di luddismo in tutte le Marche, finché i regi carabinieri non intervennero con durezza (cfr. S. POSSANZINI, A discore nun è fadiga, Hamburg-Recanati 1992, per una storia ragionata del primo sindacalismo anarchico marchigiano).
Non si hanno dunque certezze su questo curioso modo di dire; si può affermare soltanto, con buona sicurezza, che il sole è una bella cosa e ai marchigiani piace. E più ancora piace a questi stessi marchigiani, proprio perché tradizionalmente noti per il loro zelo lavorativo, che il lavoro un giorno finisca per sempre e non se parli più.

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